Non so dire quanto sia utile definire con esattezza gli ambiti temporali o l’inizio dell’interesse specifico per il recupero o la valorizzazione delle testimonianze industriali dismesse: ritengo che in fondo si tratti di riconoscere in questo fatto una porzione di un tutto più vasto, dello smisurato campo d’interesse per il recupero ed il riuso di opere di epoche precedenti, il più delle volte assegnandovi nuove destinazioni. Ciò in generale è sempre accaduto e non credo sia necessario scomodare le ville o le massae romane, e neppure le fabbriche medievali che, con gli stravolgimenti immaginabili, sono diventate case e conventi, palazzi o masserie agricole. Ma se non è rilevante la data, lo è certamente la forte specificità del tema, che coinvolge ambiti multidisciplinari con evidenti esigenze di competenza tecnica e capacità di rapportarsi sia con settori tipologici fortemente caratterizzati, sia con differenti culture ed atteggiamenti riguardo alle modalità di intervento. Alcuni decenni addietro, e non sembra sia cambiato molto da allora, Anna Maria Fundarò notava come per l’area siciliana, a differenza di altre nel Nord Europa e in Italia stessa, si fosse molto indietro non solo nella salvaguardia e recupero del patrimonio di Archeologia Industriale, a suo dire “immenso” nelle aree urbane e rurali, ma anche nell’opera di semplice catalogazione e documentazione grafica e fotografica. Osservava inoltre come non fosse in programma alcuna iniziativa in tale direzione, ritenendo necessaria una lotta contro il tempo per limitare la perdita di manufatti “non protetti dall’aura della sacralità delle cose più antiche”. Non è certo sufficiente il riferimento nominale alla disciplina dell’Archeologia perché impianti estrattivi o agricoli, gasometri o torri d’acqua vengano tutelati riconoscendo loro un significato culturale autonomo, al di là del valore estetico, artistico, paesaggistico o architettonico. Il reperto “archeologico” propriamente detto verrà comunque tutelato e conservato per mantenerne il ruolo di testimone muto della storia e delle civiltà più lontane; ciò a differenza dai manufatti otto-novecenteschi, dei quali bisognerà volta per volta dimostrare l’importanza assunta per la vita sociale ed economica di una comunità e quindi trovarne una funzione compatibile. Vincenzo Sapienza tratteggia i temi generali della disciplina e rapidamente ne esamina ed approfondisce le specificità: l’intervento, secondo un metodo definito “ archeologico”, deve essere capace di recuperare la memoria e trasmettere il significato di manufatti di grande complessità, perché caratterizzati da dimensioni fuori scala, materiali e tecniche “moderni”, cioè frequentemente sperimentali, insufficientemente collaudati e soggetti a rapido deterioramento, accentuato quest'ultimo dall’abbandono in cui il più delle volte si trovano da lungo tempo. Finalità esplicita del libro, comune agli obiettivi delle Associazioni di Archeologia Industriale, è la sensibilizzazione per il tema, che parte da una conoscenza analitica del sito che sia in grado di manifestarne le qualità ed i valori palesi e nascosti. Documentazione necessaria per bloccare ogni trasformazione incolta, ma anche per costruire una capacità programmatoria/progettuale che ne rispetti la storia e renda il complesso disponibile ad attività utili nell’attuale contesto, elevando il livello delle destinazioni possibili. L’obiettivo ambizioso è di limitare o escludere deprimenti funzioni, come quelle prettamente commerciali, a vantaggio di attività compatibili e sostenibili dal territorio, in cui l’aggettivo “culturale” rischia di assumere un’accezione presuntuosa. L’Autore affida la questione del progetto al metodo vitruviano, da applicare con chiarezza agli organismi industriali ed alla loro possibile riutilizzazione/trasformazione. Ritengo che alla presunta flessibilità (utilitas) delle strutture che consentirebbe le conversioni richieste, alla fiducia nell’equilibrio tra preesistenze ed aggiunte (venustas) ed alla necessità di adeguamento alle ordinarie condizioni di sicurezza (firmitas), non possa non aggiungersi un parametro che tenga conto del luogo, della cultura tecnica, sociale ed economica della comunità che lo ha prodotto. Lo stesso concetto complesso di “sostenibilità” dell’intervento, oltre a riguardare gli aspetti fisico-tecnici e di benessere dei fruitori, non può prescindere da un rapporto forte e diretto con la tradizione e la cultura locali. Se in molti ambiti si fa ricorso ad un cosiddetto “stile internazionale”, un modo “ecumenico” di produzione progettuale che pretende di connettere ed omologare mondi tra loro assai lontani, vi è il rischio, anche in questo settore di nicchia, che la rapida circolazione di messaggi ed immagini, di nomi, di miti e di totem, porti a definire metodologie e risultati “universali” da sovrapporre a storie tipicamente locali. Che conduca a mirare ad un confronto a scala sovracontinentale con occhi affetti da presbiopia, cioè perdendo di vista il sito, il manufatto espressione della sua cultura con propria forma e tecnica, l’inserimento nel suo territorio con la funzione di testimonianza sociale e di sviluppo economico. Fatti, questi, che hanno reso il manufatto stesso degno di una considerazione massima, di livello “archeologico” appunto. Molto opportunamente viene altresì messo in evidenza il ruolo importante che questi complessi produttivi assumono nel paesaggio per le aree rurali ed extraurbane, e come la loro riqualificazione possa divenire occasione per consolidare le qualità significative di luoghi abbandonati e degradati. Insieme al recupero della bellezza degli ambienti naturali, si mira alla conservazione e valorizzazione dei cosiddetti paesaggi culturali, ricordando come Pirandello, Verga, Sciascia ed altri abbiano tratto dagli ambienti e dalle condizioni di lavoro spunti per le loro narrazioni di successo. Attraverso l’impegno progettuale correttamente condotto è possibile trasformare il danno in opportunità di sviluppo sociale, economico e turistico, così come avviene da tempo in aree meno ricche di storia e stratificazioni. L’infinita vastità di tipologie, di manufatti, di storie è testimoniata, non so quanto consapevolmente, da Sapienza che presenta quattro casi di studio che comprendono idealmente l’intero panorama naturale/artificiale riassunto nei quattro elementi fondamentali della tradizione ellenica, così presente nella cultura più profonda dell’Isola. Il fuoco delle fornaci Hoffmann di Caltagirone, la terra nelle cui viscere si sviluppano le miniere di zolfo di Floristella-Grottacalda, l’aria degli ambienti e degli spazi intriganti delle masserie fortificate, l’acqua marina delle tonnare lungo le coste siciliane. Dobbiamo riconoscere che nelle nostre comunità poco si sta facendo per partecipare a fermare il degrado, l’abbandono e la perdita di complessi produttivi, anche di quelli più noti e significativi. L’università può contribuire essenzialmente con studi e ricerche, ed appunto questo impegnativo lavoro di Vincenzo Sapienza nelle sue considerazioni generali, nei rapporti con esempi lontani nello spazio ma prossimi nelle problematiche e nelle soluzioni, nell’analisi accurata dei casi di studio, costituisce un importante tassello di questioni di grande ampiezza; richiama l’attenzione e sensibilizza il lettore su un tema che (purtroppo) non è al centro del dibattito. Non ultimo pregio del libro ritengo sia la volontà di rapportare ad un quadro più vasto le questioni siciliane ed alcuni emblematici casi locali, senza timore di rischiare la bizzarra accusa di “localismo” che troppo spesso, anche da soggetti qualificati, ci troviamo ad ascoltare. A questo proposito ritengo che, come è stato nel passato, l’Università debba tornare ad essere pienamente riferimento e presidio culturale del suo territorio, punto di accumulazione e divulgazione di conoscenze e produttore di proposte di sviluppo e valorizzazione. Ciò specie in aree difficili, complesse, degradate, saccheggiate come la Sicilia ed il Meridione, in cui uno dei principali compiti dell’Università è di muovere le coscienze, con argomenti solidi e sufficiente autorevolezza, per lavorare tutti nella direzione utile al territorio ed al futuro delle comunità.

Fatta, G. (2015). Presentazione. In riuso e conservazione nell'archeologia industriale in Sicilia. L'ambiente rurale (pp. 4-6). ARICCIA (RM) : aracne editrice.

Presentazione

FATTA, Giovanni
2015-01-01

Abstract

Non so dire quanto sia utile definire con esattezza gli ambiti temporali o l’inizio dell’interesse specifico per il recupero o la valorizzazione delle testimonianze industriali dismesse: ritengo che in fondo si tratti di riconoscere in questo fatto una porzione di un tutto più vasto, dello smisurato campo d’interesse per il recupero ed il riuso di opere di epoche precedenti, il più delle volte assegnandovi nuove destinazioni. Ciò in generale è sempre accaduto e non credo sia necessario scomodare le ville o le massae romane, e neppure le fabbriche medievali che, con gli stravolgimenti immaginabili, sono diventate case e conventi, palazzi o masserie agricole. Ma se non è rilevante la data, lo è certamente la forte specificità del tema, che coinvolge ambiti multidisciplinari con evidenti esigenze di competenza tecnica e capacità di rapportarsi sia con settori tipologici fortemente caratterizzati, sia con differenti culture ed atteggiamenti riguardo alle modalità di intervento. Alcuni decenni addietro, e non sembra sia cambiato molto da allora, Anna Maria Fundarò notava come per l’area siciliana, a differenza di altre nel Nord Europa e in Italia stessa, si fosse molto indietro non solo nella salvaguardia e recupero del patrimonio di Archeologia Industriale, a suo dire “immenso” nelle aree urbane e rurali, ma anche nell’opera di semplice catalogazione e documentazione grafica e fotografica. Osservava inoltre come non fosse in programma alcuna iniziativa in tale direzione, ritenendo necessaria una lotta contro il tempo per limitare la perdita di manufatti “non protetti dall’aura della sacralità delle cose più antiche”. Non è certo sufficiente il riferimento nominale alla disciplina dell’Archeologia perché impianti estrattivi o agricoli, gasometri o torri d’acqua vengano tutelati riconoscendo loro un significato culturale autonomo, al di là del valore estetico, artistico, paesaggistico o architettonico. Il reperto “archeologico” propriamente detto verrà comunque tutelato e conservato per mantenerne il ruolo di testimone muto della storia e delle civiltà più lontane; ciò a differenza dai manufatti otto-novecenteschi, dei quali bisognerà volta per volta dimostrare l’importanza assunta per la vita sociale ed economica di una comunità e quindi trovarne una funzione compatibile. Vincenzo Sapienza tratteggia i temi generali della disciplina e rapidamente ne esamina ed approfondisce le specificità: l’intervento, secondo un metodo definito “ archeologico”, deve essere capace di recuperare la memoria e trasmettere il significato di manufatti di grande complessità, perché caratterizzati da dimensioni fuori scala, materiali e tecniche “moderni”, cioè frequentemente sperimentali, insufficientemente collaudati e soggetti a rapido deterioramento, accentuato quest'ultimo dall’abbandono in cui il più delle volte si trovano da lungo tempo. Finalità esplicita del libro, comune agli obiettivi delle Associazioni di Archeologia Industriale, è la sensibilizzazione per il tema, che parte da una conoscenza analitica del sito che sia in grado di manifestarne le qualità ed i valori palesi e nascosti. Documentazione necessaria per bloccare ogni trasformazione incolta, ma anche per costruire una capacità programmatoria/progettuale che ne rispetti la storia e renda il complesso disponibile ad attività utili nell’attuale contesto, elevando il livello delle destinazioni possibili. L’obiettivo ambizioso è di limitare o escludere deprimenti funzioni, come quelle prettamente commerciali, a vantaggio di attività compatibili e sostenibili dal territorio, in cui l’aggettivo “culturale” rischia di assumere un’accezione presuntuosa. L’Autore affida la questione del progetto al metodo vitruviano, da applicare con chiarezza agli organismi industriali ed alla loro possibile riutilizzazione/trasformazione. Ritengo che alla presunta flessibilità (utilitas) delle strutture che consentirebbe le conversioni richieste, alla fiducia nell’equilibrio tra preesistenze ed aggiunte (venustas) ed alla necessità di adeguamento alle ordinarie condizioni di sicurezza (firmitas), non possa non aggiungersi un parametro che tenga conto del luogo, della cultura tecnica, sociale ed economica della comunità che lo ha prodotto. Lo stesso concetto complesso di “sostenibilità” dell’intervento, oltre a riguardare gli aspetti fisico-tecnici e di benessere dei fruitori, non può prescindere da un rapporto forte e diretto con la tradizione e la cultura locali. Se in molti ambiti si fa ricorso ad un cosiddetto “stile internazionale”, un modo “ecumenico” di produzione progettuale che pretende di connettere ed omologare mondi tra loro assai lontani, vi è il rischio, anche in questo settore di nicchia, che la rapida circolazione di messaggi ed immagini, di nomi, di miti e di totem, porti a definire metodologie e risultati “universali” da sovrapporre a storie tipicamente locali. Che conduca a mirare ad un confronto a scala sovracontinentale con occhi affetti da presbiopia, cioè perdendo di vista il sito, il manufatto espressione della sua cultura con propria forma e tecnica, l’inserimento nel suo territorio con la funzione di testimonianza sociale e di sviluppo economico. Fatti, questi, che hanno reso il manufatto stesso degno di una considerazione massima, di livello “archeologico” appunto. Molto opportunamente viene altresì messo in evidenza il ruolo importante che questi complessi produttivi assumono nel paesaggio per le aree rurali ed extraurbane, e come la loro riqualificazione possa divenire occasione per consolidare le qualità significative di luoghi abbandonati e degradati. Insieme al recupero della bellezza degli ambienti naturali, si mira alla conservazione e valorizzazione dei cosiddetti paesaggi culturali, ricordando come Pirandello, Verga, Sciascia ed altri abbiano tratto dagli ambienti e dalle condizioni di lavoro spunti per le loro narrazioni di successo. Attraverso l’impegno progettuale correttamente condotto è possibile trasformare il danno in opportunità di sviluppo sociale, economico e turistico, così come avviene da tempo in aree meno ricche di storia e stratificazioni. L’infinita vastità di tipologie, di manufatti, di storie è testimoniata, non so quanto consapevolmente, da Sapienza che presenta quattro casi di studio che comprendono idealmente l’intero panorama naturale/artificiale riassunto nei quattro elementi fondamentali della tradizione ellenica, così presente nella cultura più profonda dell’Isola. Il fuoco delle fornaci Hoffmann di Caltagirone, la terra nelle cui viscere si sviluppano le miniere di zolfo di Floristella-Grottacalda, l’aria degli ambienti e degli spazi intriganti delle masserie fortificate, l’acqua marina delle tonnare lungo le coste siciliane. Dobbiamo riconoscere che nelle nostre comunità poco si sta facendo per partecipare a fermare il degrado, l’abbandono e la perdita di complessi produttivi, anche di quelli più noti e significativi. L’università può contribuire essenzialmente con studi e ricerche, ed appunto questo impegnativo lavoro di Vincenzo Sapienza nelle sue considerazioni generali, nei rapporti con esempi lontani nello spazio ma prossimi nelle problematiche e nelle soluzioni, nell’analisi accurata dei casi di studio, costituisce un importante tassello di questioni di grande ampiezza; richiama l’attenzione e sensibilizza il lettore su un tema che (purtroppo) non è al centro del dibattito. Non ultimo pregio del libro ritengo sia la volontà di rapportare ad un quadro più vasto le questioni siciliane ed alcuni emblematici casi locali, senza timore di rischiare la bizzarra accusa di “localismo” che troppo spesso, anche da soggetti qualificati, ci troviamo ad ascoltare. A questo proposito ritengo che, come è stato nel passato, l’Università debba tornare ad essere pienamente riferimento e presidio culturale del suo territorio, punto di accumulazione e divulgazione di conoscenze e produttore di proposte di sviluppo e valorizzazione. Ciò specie in aree difficili, complesse, degradate, saccheggiate come la Sicilia ed il Meridione, in cui uno dei principali compiti dell’Università è di muovere le coscienze, con argomenti solidi e sufficiente autorevolezza, per lavorare tutti nella direzione utile al territorio ed al futuro delle comunità.
2015
978-88-548-6531-0
Fatta, G. (2015). Presentazione. In riuso e conservazione nell'archeologia industriale in Sicilia. L'ambiente rurale (pp. 4-6). ARICCIA (RM) : aracne editrice.
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