Già nelle più importanti esposizioni parigine d’età positivista, fin dall’Exposition Universelle del 1878, la comparsa di padiglioni dedicati a terre lontane e a forme di civiltà “altre”, e quindi configurati con eclettiche strumentazioni formali (genericamente etichettate come orientaliste) riferite alle rispettive culture architettoniche e artistiche, unitamente alle installazioni di vere e proprie ambientazioni abitative di popolazioni eufemisticamente definite «puramente naturali», corredate di tutto punto e animate dalla presenza di gruppi umani e, spesso, della fauna e della flora dei paesi d’origine, aveva generato una spirale di interesse o di pura curiosità, non di rado morbosa, da parte del pubblico europeo, alimentandone però la sciovinista convinzione di una indiscutibile superiorità della civiltà occidentale. Sindrome, questa, esaltata proprio in seno alle esposizioni dallo stridente contrapporsi di questi esotici inserti architettonici, spesso ai limiti del fantastico ma anche del caricaturale, con il contesto ridondante di positivi segni o anche di feticci della modernità. I termini negativi del confronto, per contrasti e differenziazioni, di civiltà così difformi non avrebbero risparmiato neanche le esposizioni coloniali vere e proprie, anche se non sempre questa categoria di manifestazioni era votata all’esibizione di scenografie architettoniche prossime all’immaginifico e al “distante” e di ambientazioni e spettacoli etnologici. L’origine di questo genere di esposizioni, infatti, è puramente mercantilistica (a cominciare dalla Intercolonial Exhibition of Australasia di Melbourne del 1866) e sarà solo diversi anni dopo che si assisterà alla proliferazione dei cosiddetti «villages nègres» o delle ambientazioni di taglio antropologico in genere in seno alle esposizioni. È principalmente con l’esposizione di Parigi del 1889, organizzata nel quadro della commemorazione per il centenario della rivoluzione, che compaiono per la prima volta complesse riproposizioni esotiche, ovviamente effimere e alquanto di genere, di contesti edilizi e di ambientazioni. Ma queste, in realtà, sono solo realizzazioni episodiche (la più eclatante delle quali è la Rue du Cairo, animata con più di duecento egiziani e dotata, oltre che della imitazione della moschea di Kaid-Bey, di ben venticinque edifici); non si trattava che di un’attrazione, quasi fieristica, nell’ambito tanto della diffusa presenza di interi padiglioni ispirati agli stili storici nazionali degli stati partecipanti quanto delle ricostruzioni sincreticamente riferite a culture architettoniche del passato quanto, ancora, della sequenza di isolate riproposizioni di edifici nord africani, ottomani, mediorientali, dell’Asia orientale e dell’Oceania. La grandiosa Exposition Coloniale Internationale de Paris del 1931 avrebbe unito la componente etnoantropologica a quella del gusto per il revival esotico risultando dal concorso di entrambe le formule fino ad allora separatamente adottate. Questo illusoria idea francese di una metafora metropolitana coloniale proposto al Bois de Vincennes era tuttavia una seducente chimera; mentre finalmente si concretizzava l’aspirazione di avvicinare con inusuale grandiosità l’esigente e curioso cittadino della Douce France e, per esteso, delle progredite nazioni occidentali alle culture dei popoli d’outre-mer questi, invece, intraprendevano quel lento e disorganico processo di autocoscienza che avrebbe dovuto portarli faticosamente al distacco dallo status di civiltà e umanità dominate.

SESSA, E. (2009). L'Exposition Coloniale Internationale de Paris 1931. In E. MAURO, E. SESSA (a cura di), Le città dei prodotti. Imprenditoria, architettura e arte nelle grandi esposizioni italiane ed europee (pp. 279-308). Palemro : Grafill.

L'Exposition Coloniale Internationale de Paris 1931

SESSA, Ettore
2009-01-01

Abstract

Già nelle più importanti esposizioni parigine d’età positivista, fin dall’Exposition Universelle del 1878, la comparsa di padiglioni dedicati a terre lontane e a forme di civiltà “altre”, e quindi configurati con eclettiche strumentazioni formali (genericamente etichettate come orientaliste) riferite alle rispettive culture architettoniche e artistiche, unitamente alle installazioni di vere e proprie ambientazioni abitative di popolazioni eufemisticamente definite «puramente naturali», corredate di tutto punto e animate dalla presenza di gruppi umani e, spesso, della fauna e della flora dei paesi d’origine, aveva generato una spirale di interesse o di pura curiosità, non di rado morbosa, da parte del pubblico europeo, alimentandone però la sciovinista convinzione di una indiscutibile superiorità della civiltà occidentale. Sindrome, questa, esaltata proprio in seno alle esposizioni dallo stridente contrapporsi di questi esotici inserti architettonici, spesso ai limiti del fantastico ma anche del caricaturale, con il contesto ridondante di positivi segni o anche di feticci della modernità. I termini negativi del confronto, per contrasti e differenziazioni, di civiltà così difformi non avrebbero risparmiato neanche le esposizioni coloniali vere e proprie, anche se non sempre questa categoria di manifestazioni era votata all’esibizione di scenografie architettoniche prossime all’immaginifico e al “distante” e di ambientazioni e spettacoli etnologici. L’origine di questo genere di esposizioni, infatti, è puramente mercantilistica (a cominciare dalla Intercolonial Exhibition of Australasia di Melbourne del 1866) e sarà solo diversi anni dopo che si assisterà alla proliferazione dei cosiddetti «villages nègres» o delle ambientazioni di taglio antropologico in genere in seno alle esposizioni. È principalmente con l’esposizione di Parigi del 1889, organizzata nel quadro della commemorazione per il centenario della rivoluzione, che compaiono per la prima volta complesse riproposizioni esotiche, ovviamente effimere e alquanto di genere, di contesti edilizi e di ambientazioni. Ma queste, in realtà, sono solo realizzazioni episodiche (la più eclatante delle quali è la Rue du Cairo, animata con più di duecento egiziani e dotata, oltre che della imitazione della moschea di Kaid-Bey, di ben venticinque edifici); non si trattava che di un’attrazione, quasi fieristica, nell’ambito tanto della diffusa presenza di interi padiglioni ispirati agli stili storici nazionali degli stati partecipanti quanto delle ricostruzioni sincreticamente riferite a culture architettoniche del passato quanto, ancora, della sequenza di isolate riproposizioni di edifici nord africani, ottomani, mediorientali, dell’Asia orientale e dell’Oceania. La grandiosa Exposition Coloniale Internationale de Paris del 1931 avrebbe unito la componente etnoantropologica a quella del gusto per il revival esotico risultando dal concorso di entrambe le formule fino ad allora separatamente adottate. Questo illusoria idea francese di una metafora metropolitana coloniale proposto al Bois de Vincennes era tuttavia una seducente chimera; mentre finalmente si concretizzava l’aspirazione di avvicinare con inusuale grandiosità l’esigente e curioso cittadino della Douce France e, per esteso, delle progredite nazioni occidentali alle culture dei popoli d’outre-mer questi, invece, intraprendevano quel lento e disorganico processo di autocoscienza che avrebbe dovuto portarli faticosamente al distacco dallo status di civiltà e umanità dominate.
2009
SESSA, E. (2009). L'Exposition Coloniale Internationale de Paris 1931. In E. MAURO, E. SESSA (a cura di), Le città dei prodotti. Imprenditoria, architettura e arte nelle grandi esposizioni italiane ed europee (pp. 279-308). Palemro : Grafill.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/10447/75714
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