Da premessa per un’indagine sul rapporto intercorrente tra memoria della Guerra e Letteratura fungono alcuni scritti di Walter Benjamin, apparsi postumi: quello giovanile e visionario sull’infanzia berlinese; le fondamentali tesi sul concetto di Storia, vergate negli ultimi mesi di vita; e alcuni frammenti, non poco stimolanti, raccolti in Angelus Novus. Il lavoro condotto ambisce a fungere soltanto da abbozzo d’un inventario di letture di scritti di Francesi sulla Grande Guerra, effettuate nel costante tentativo di comprendere il corso della storia sanguinosa scritta da un’umanità cieca e brutale. Per quel che concerne la produzione narrativa apparsa in Francia fra il 1914 ed 1920, è opportuno rilevare, in modo preliminare, come si sia trattato d’un genere ibrido, sospeso tra il racconto, il saggio e il romanzo. Prendendo in esame quelli che possono esser considerati più propriamente come romanzi, è apparso necessario sorvolare sulla non breve sequela di testi nei quali la guerra, pur elemento marginale, rappresenta tuttavia il presupposto fondamentale dell’intero tessuto narrativo: fra i nomi più noti possono ricordarsi, in merito, quelli di Montherlant e di Céline. Non è trascurabile rilevare, viceversa, come il “Prix Goncourt” sia stato consecutivamente ed esclusivamente attribuito, dal 1914 al 1918, ad opere di scrittori-combattenti (Adrien Bertrand, René Benjamin, Henri Barbusse, Henry Malherbe, Georges Duhamel) che venivano riscuotendo, già ad immediato ridosso della conclusione dell’evento bellico, un grande successo di pubblico, determinato dal fatto che da quei romanzi il lettore poteva finalmente avere contezza della cruda realtà della guerra in corso e di tutti i suoi orrori, scoprendo ciò che la stampa nazionalistica di propaganda aveva costantemente manipolato, o ancor di più del tutto occultato, durante lo svolgimento delle operazioni belliche. Sarà proprio il romanzo di guerra, infatti – insieme alla narrazione dei ricordi di guerra frammista ad elementi di finzione narrativa – a rivelarsi, nello scorrere degli anni, come il più fecondo tra i generi letterari fino alla fine degli anni Trenta. Nessuno di quegli scrittori perviene ad esprimere a guerra ancora in corso i tratti distintivi di un compiuto pacifismo: ove si eccettui, naturalmente, Romain Rolland che aveva innalzato il proprio lucidissimo grido profetico. A partire dal 1921, però, da alcuni scritti affiorano in modo palese i traumi prodotti dall’esperienza bellica e, insieme, l’insorgere di un ormai convinto pacifismo: è il caso di Alain, di Bazin, di Mac Orlan, financo di Leroux e di Leblanc ma, sopra tutto, di Jean Giraudoux e del suo Siegfried et le Limousin, romanzo nel quale la dualità del personaggio mette bene in luce, in tutta la sua drammaticità, la dimidiazione vissuta dall’intellettuale transalpino. Di quanto le conseguenze del conflitto abbiano provocato angosce e speranze collettive destinate a restare accese fin sulle soglie degli anni Cinquanta, restano ampia e commovente testimonianza, poi, alcune suites romanesques che incontreranno un costante successo di pubblico, cui non è stato certamente estraneo anche il consapevole recupero della memoria della Grande Guerra perseguito con passione da autori quali Maurice Genevoix, Jules Romains, Roger Martin du Gard o, ancora, Henry Poulaille. Frequente resta il caso, inoltre, di scrittori impregnati da contrapposte ideologie che utilizzano la memoria della guerra all’interno del tessuto narrativo come strumento utile per far calare nell’animo del lettore le proprie idee: Georges Duhamel, Henri Béraud, Louis Bertrand, Jean Prévost, Gabriel Chevallier, Louis Guilloux, o ancora quel quel Louis Aragon che, nel tracciare un lucido affresco sul dipanarsi delle vicende storiche che condussero la società francese dalla “Belle Époque” fino al repentino tramonto di quella vita illusoria, conclude la sua avvincente narrazione proprio sullo scoppio della Grande Guerra. Certo resta, in ogni caso, che proprio in quelle narrazioni (e in special modo in quelle di un Barbusse, di un Bernanos e di un Drieu La Rochelle) sia possibile identificare la radice delle contrapposte ideologie, comunismo e fascismo, che andarono sviluppandosi negli anni seguenti in Francia; e che diversi scrittori, accesi nazionalisti o pacifisti militanti ch’essi fossero, trovarono proprio nel romanzo l’elemento consapevole di impegno ideologico e di denunzia degli orrori della guerra. Esempi emblematici di quel serrato confronto ideo-politico che continuò ad autoalimentarsi senza tregua anche attraverso le pagine della narrativa possono ben essere considerati, su posizioni contrapposte, Henry de Montherlant e Jacques Péricard da un lato e, dall’altro, Léon Werth ma ancor di più quel Roland Dorgelès che, evocando nel 1949 la cerimonia svoltasi nel 1920 per la scelta del corpo del milite ignoto francese, tornerà a gridare, e senza più alcun ricorso a metafore narrative, tutto il disgusto provocato in lui dall’opera di mistificazione della realtà messa in atto dalla retorica nazionalistica, impegnata a trasmutare in eroi leggendari i poveri resti maciullati degli individui ch’erano stati cinicamente mandati al macello. La letteratura di guerra cui diede vita quella stessa generazione di scrittori è da considerarsi in ogni caso, come il prologo a quella letteratura sulla guerra che prolifererà, in special modo a partire dagli anni Trenta, nell’intera Europa. E non poco significativo appare il caso di alcuni individui (quali, ad esempio, Ricciotto Canudo) che, partiti per il fronte con l’animo profondamente permeato del mito della guerra, perverranno a rifiutarlo in modo sempre più consapevole, ripugnandolo insieme ad una serie di altri convincimenti, quali ad esempio il razzismo, dei quali erano pure stati pugnaci alfieri. Non appare del tutto casuale, allora, che la produzione narrativa germinata da quell’evento che sconvolse l’Europa e la sua coscienza abbia ottenuto, nello scorrere dei decenni, un’attenzione crescente da parte dei lettori e della critica. La Grande Guerra, con tutto il suo greve carico di inaudita e barbara violenza, non poteva in alcun modo non inscriversi nella memoria e nella psiche di intere generazioni. Quel luttuoso avvenimento ha continuato ad alimentare la fantasia degli scrittori anche a distanza di svariati decenni, riemergendo in modo prepotente ancor oggi, con l’avvento delle generazioni successive a quella che ne era stata coinvolta. Nuove ondate di scrittori hanno rinverdito instancabilmente la memoria del conflitto che aveva sconvolto la vita dei loro antenati, mentre continuano ad aggiungersi, con una frequenza tambureggiante, altri scrittori della nostra contemporaneità. Un tema narrativo particolarmente utilizzato da coloro che non hanno vissuto in prima persona quel conflitto è quello costituito dalla quête du père. Si tratta di modi di narrazione, correntemente definiti come récits de filiation, sui quali è venuta appuntandosi da qualche tempo a questa parte l’attenzione della critica, nella giusta convinzione che, lasciato alle spalle il periodo di focalizzazione dei problemi formali, la scrittura letteraria, ritornata ad interessarsi della ricerca delle origini, sia pervenuta ad incentrarsi sui problemi del soggetto e ad aprirsi, con l’interrogazione sulla storia familiare, alla Storia: come è agevole rilevare nei romanzi di Claude Simon e di Bernard Clavel, o ancora in quelli di appartenenti alla generazione successiva (Bergounioux, Rouaud, Audoin-Rouzeau). La Grande Guerra era stata combattuta essenzialmente da individui rimasti inconsapevoli delle ragioni di quella immane carneficina. E di quella guerra poco hanno tramandato le fonti ufficiali. Senza le testimonianze di coloro che la vissero, e senza la letteratura che ce ne ha trasmesso tutta l’orrida e cruda realtà, quell’“ultima delle guerre”, sarebbe rimasta imbalsamata nell’immagine che la retorica nazionalistica delle Nazioni le ha cucito addosso nei manuali scolastici. È stata la Letteratura, in definitiva, a squarciare i veli e a restituirci tutto l’orrore di quella follìa collettiva dalla quale fu investito l’intero Pianeta; quella Letteratura che sarà sempre chiamata ad assolvere all’insostituibile funzione memoriale, allo svolgimento di un ruolo complementare, e sempre più drammaticamente necessario, nei confronti della Storia. Quella Letteratura che resta, insomma, il solo strumento capace, nel recupero memoriale, di offrire, con la ricca variegatura di forme e di toni di narrazione (diaristica, memorialistica, epica, propaganda, denuncia, novelle, racconti, romanzi), ampi spazi all’analisi dei fatti storici, garantendo anche, in modo contestuale, la libertà di applicazione di moduli stilistici e di interpretazioni ideologiche a volte anche molto diversi.
Santangelo, G.S. (2012). Memoria e narrazioni: voci francesi sulla Grande Guerra. In I pensieri dell’istante. Scritti per Jacqueline Risset (pp. 438-449). Roma : Editori Internazionali Riuniti.
Memoria e narrazioni: voci francesi sulla Grande Guerra
SANTANGELO, Giovanni Saverio
2012-01-01
Abstract
Da premessa per un’indagine sul rapporto intercorrente tra memoria della Guerra e Letteratura fungono alcuni scritti di Walter Benjamin, apparsi postumi: quello giovanile e visionario sull’infanzia berlinese; le fondamentali tesi sul concetto di Storia, vergate negli ultimi mesi di vita; e alcuni frammenti, non poco stimolanti, raccolti in Angelus Novus. Il lavoro condotto ambisce a fungere soltanto da abbozzo d’un inventario di letture di scritti di Francesi sulla Grande Guerra, effettuate nel costante tentativo di comprendere il corso della storia sanguinosa scritta da un’umanità cieca e brutale. Per quel che concerne la produzione narrativa apparsa in Francia fra il 1914 ed 1920, è opportuno rilevare, in modo preliminare, come si sia trattato d’un genere ibrido, sospeso tra il racconto, il saggio e il romanzo. Prendendo in esame quelli che possono esser considerati più propriamente come romanzi, è apparso necessario sorvolare sulla non breve sequela di testi nei quali la guerra, pur elemento marginale, rappresenta tuttavia il presupposto fondamentale dell’intero tessuto narrativo: fra i nomi più noti possono ricordarsi, in merito, quelli di Montherlant e di Céline. Non è trascurabile rilevare, viceversa, come il “Prix Goncourt” sia stato consecutivamente ed esclusivamente attribuito, dal 1914 al 1918, ad opere di scrittori-combattenti (Adrien Bertrand, René Benjamin, Henri Barbusse, Henry Malherbe, Georges Duhamel) che venivano riscuotendo, già ad immediato ridosso della conclusione dell’evento bellico, un grande successo di pubblico, determinato dal fatto che da quei romanzi il lettore poteva finalmente avere contezza della cruda realtà della guerra in corso e di tutti i suoi orrori, scoprendo ciò che la stampa nazionalistica di propaganda aveva costantemente manipolato, o ancor di più del tutto occultato, durante lo svolgimento delle operazioni belliche. Sarà proprio il romanzo di guerra, infatti – insieme alla narrazione dei ricordi di guerra frammista ad elementi di finzione narrativa – a rivelarsi, nello scorrere degli anni, come il più fecondo tra i generi letterari fino alla fine degli anni Trenta. Nessuno di quegli scrittori perviene ad esprimere a guerra ancora in corso i tratti distintivi di un compiuto pacifismo: ove si eccettui, naturalmente, Romain Rolland che aveva innalzato il proprio lucidissimo grido profetico. A partire dal 1921, però, da alcuni scritti affiorano in modo palese i traumi prodotti dall’esperienza bellica e, insieme, l’insorgere di un ormai convinto pacifismo: è il caso di Alain, di Bazin, di Mac Orlan, financo di Leroux e di Leblanc ma, sopra tutto, di Jean Giraudoux e del suo Siegfried et le Limousin, romanzo nel quale la dualità del personaggio mette bene in luce, in tutta la sua drammaticità, la dimidiazione vissuta dall’intellettuale transalpino. Di quanto le conseguenze del conflitto abbiano provocato angosce e speranze collettive destinate a restare accese fin sulle soglie degli anni Cinquanta, restano ampia e commovente testimonianza, poi, alcune suites romanesques che incontreranno un costante successo di pubblico, cui non è stato certamente estraneo anche il consapevole recupero della memoria della Grande Guerra perseguito con passione da autori quali Maurice Genevoix, Jules Romains, Roger Martin du Gard o, ancora, Henry Poulaille. Frequente resta il caso, inoltre, di scrittori impregnati da contrapposte ideologie che utilizzano la memoria della guerra all’interno del tessuto narrativo come strumento utile per far calare nell’animo del lettore le proprie idee: Georges Duhamel, Henri Béraud, Louis Bertrand, Jean Prévost, Gabriel Chevallier, Louis Guilloux, o ancora quel quel Louis Aragon che, nel tracciare un lucido affresco sul dipanarsi delle vicende storiche che condussero la società francese dalla “Belle Époque” fino al repentino tramonto di quella vita illusoria, conclude la sua avvincente narrazione proprio sullo scoppio della Grande Guerra. Certo resta, in ogni caso, che proprio in quelle narrazioni (e in special modo in quelle di un Barbusse, di un Bernanos e di un Drieu La Rochelle) sia possibile identificare la radice delle contrapposte ideologie, comunismo e fascismo, che andarono sviluppandosi negli anni seguenti in Francia; e che diversi scrittori, accesi nazionalisti o pacifisti militanti ch’essi fossero, trovarono proprio nel romanzo l’elemento consapevole di impegno ideologico e di denunzia degli orrori della guerra. Esempi emblematici di quel serrato confronto ideo-politico che continuò ad autoalimentarsi senza tregua anche attraverso le pagine della narrativa possono ben essere considerati, su posizioni contrapposte, Henry de Montherlant e Jacques Péricard da un lato e, dall’altro, Léon Werth ma ancor di più quel Roland Dorgelès che, evocando nel 1949 la cerimonia svoltasi nel 1920 per la scelta del corpo del milite ignoto francese, tornerà a gridare, e senza più alcun ricorso a metafore narrative, tutto il disgusto provocato in lui dall’opera di mistificazione della realtà messa in atto dalla retorica nazionalistica, impegnata a trasmutare in eroi leggendari i poveri resti maciullati degli individui ch’erano stati cinicamente mandati al macello. La letteratura di guerra cui diede vita quella stessa generazione di scrittori è da considerarsi in ogni caso, come il prologo a quella letteratura sulla guerra che prolifererà, in special modo a partire dagli anni Trenta, nell’intera Europa. E non poco significativo appare il caso di alcuni individui (quali, ad esempio, Ricciotto Canudo) che, partiti per il fronte con l’animo profondamente permeato del mito della guerra, perverranno a rifiutarlo in modo sempre più consapevole, ripugnandolo insieme ad una serie di altri convincimenti, quali ad esempio il razzismo, dei quali erano pure stati pugnaci alfieri. Non appare del tutto casuale, allora, che la produzione narrativa germinata da quell’evento che sconvolse l’Europa e la sua coscienza abbia ottenuto, nello scorrere dei decenni, un’attenzione crescente da parte dei lettori e della critica. La Grande Guerra, con tutto il suo greve carico di inaudita e barbara violenza, non poteva in alcun modo non inscriversi nella memoria e nella psiche di intere generazioni. Quel luttuoso avvenimento ha continuato ad alimentare la fantasia degli scrittori anche a distanza di svariati decenni, riemergendo in modo prepotente ancor oggi, con l’avvento delle generazioni successive a quella che ne era stata coinvolta. Nuove ondate di scrittori hanno rinverdito instancabilmente la memoria del conflitto che aveva sconvolto la vita dei loro antenati, mentre continuano ad aggiungersi, con una frequenza tambureggiante, altri scrittori della nostra contemporaneità. Un tema narrativo particolarmente utilizzato da coloro che non hanno vissuto in prima persona quel conflitto è quello costituito dalla quête du père. Si tratta di modi di narrazione, correntemente definiti come récits de filiation, sui quali è venuta appuntandosi da qualche tempo a questa parte l’attenzione della critica, nella giusta convinzione che, lasciato alle spalle il periodo di focalizzazione dei problemi formali, la scrittura letteraria, ritornata ad interessarsi della ricerca delle origini, sia pervenuta ad incentrarsi sui problemi del soggetto e ad aprirsi, con l’interrogazione sulla storia familiare, alla Storia: come è agevole rilevare nei romanzi di Claude Simon e di Bernard Clavel, o ancora in quelli di appartenenti alla generazione successiva (Bergounioux, Rouaud, Audoin-Rouzeau). La Grande Guerra era stata combattuta essenzialmente da individui rimasti inconsapevoli delle ragioni di quella immane carneficina. E di quella guerra poco hanno tramandato le fonti ufficiali. Senza le testimonianze di coloro che la vissero, e senza la letteratura che ce ne ha trasmesso tutta l’orrida e cruda realtà, quell’“ultima delle guerre”, sarebbe rimasta imbalsamata nell’immagine che la retorica nazionalistica delle Nazioni le ha cucito addosso nei manuali scolastici. È stata la Letteratura, in definitiva, a squarciare i veli e a restituirci tutto l’orrore di quella follìa collettiva dalla quale fu investito l’intero Pianeta; quella Letteratura che sarà sempre chiamata ad assolvere all’insostituibile funzione memoriale, allo svolgimento di un ruolo complementare, e sempre più drammaticamente necessario, nei confronti della Storia. Quella Letteratura che resta, insomma, il solo strumento capace, nel recupero memoriale, di offrire, con la ricca variegatura di forme e di toni di narrazione (diaristica, memorialistica, epica, propaganda, denuncia, novelle, racconti, romanzi), ampi spazi all’analisi dei fatti storici, garantendo anche, in modo contestuale, la libertà di applicazione di moduli stilistici e di interpretazioni ideologiche a volte anche molto diversi.File | Dimensione | Formato | |
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