Sin dai primordi della riforma del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, la questione del trattamento economico del dirigente è stata oggetto di particolare interesse e di diversi ‘rimaneggiamenti’, da parte del legislatore. Nell’attuale formulazione, l’art. 24 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (d’ora in poi T.U.P.I.) assegna al contratto collettivo ed a quello individuale la determinazione del trattamento retributivo del personale dirigenziale, ancorando la parte accessoria dello stesso “alle funzioni attribuite, alle connesse responsabilità e ai risultati conseguiti” e specificando i criteri a cui la fonte pattizia deve attenersi nella regolazione della componente legata al risultato. Inoltre, la disposizione precisa che la retribuzione "remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto” dal Testo unico, nonché “qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall'amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa". La correlazione tra il principio della riserva collettiva e quello dell’onnicomprensività del trattamento economico è da tempo rimarcata dalla giurisprudenza amministrativa e contabile, la quale mette in evidenza come tali principi siano complementari nel perseguimento dell’obbiettivo del contenimento della spesa pubblica. Al contempo, nelle intenzioni del legislatore, il sistema definito dall’art. 24 T.U.P.I. avrebbe dovuto facilitare, nel suo insieme, il raggiungimento degli standard di professionalità, responsabilità e autonomia della dirigenza pubblica. Nonostante il lungo tempo trascorso dalla sua entrata in vigore, l’applicazione della disciplina sul trattamento economico della dirigenza non è rimasta esente da problemi interpretativi e valutazioni di opportunità. Anzitutto, è discutibile che il congegno legislativo abbia consentito un reale risparmio per l’erario pubblico, considerato il ricorso frequente delle p.a. all’affidamento di incarichi all’esterno, l’erogazione di quote significative del trattamento accessorio tramite meccanismi di valutazione generosi (se non, addirittura fittizi) dell’operato dirigenziale, oltreché le distorsioni ‘consociative’ della negoziazione collettiva di area, che si sono spesso risolte in aumenti della dote finanziaria destinata alle retribuzioni. Ancora, con riguardo alle relazioni sindacali, residua il tentativo di tutelare l’autonomia dirigenziale mediante misure di tipo economico. Nello specifico, anche nell’ultima tornata contrattuale, ha trovato conferma la “Clausola di salvaguardia economica”, il cui scopo è tutelare i dirigenti che, a seguito di riassetti organizzativi, si vedano revocato l’incarico in corso e conferite nuove funzioni, cui sono associate retribuzioni di posizione di livello inferiore rispetto a quelle in godimento. Quest’ultima solleva dubbi di legittimità, poiché si pone in limine tra la materia del trattamento retributivo, oggetto della riserva collettiva, ed una chiaramente riservata alla regolazione unilaterale, ovverosia quella del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali; ciò sebbene la Corte dei conti abbia avvallato la legittimità di tali clausole in sede di certificazione dei rispettivi contratti collettivi. Da un’altra prospettiva, lo stesso istituto negoziale è suscettibile di creare discrasie nel sistema, considerata la prassi di adottare processi di riorganizzazione del personale al solo scopo di revocare incarichi dirigenziali, pur in assenza di valutazione negativa. Sul piano del rapporto individuale di lavoro, invece, la precarizzazione della dirigenza e la sua persistente fidelizzazione al potere politico minacciano la funzione assolta dal principio di onnicomprensività, nell’applicazione rigorosa affermata dalla giurisprudenza, in forza del quale non può essere remunerata ogni attività dirigenziale riconducibile alla sfera di azione dell’ente di appartenenza. Non è infrequente che il dirigente accetti incarichi ulteriori senza un miglioramento delle condizioni retributive ed il conseguente aggravio di spesa, allo scopo di conservare la fiducia del soggetto politico e ottenere ulteriori sviluppi di carriera. Attualmente, l’applicazione del principio di onnicomprensività solleva delicati problemi interpretativi, con riguardo al regime di affidamento degli incarichi nel settore dei contratti pubblici, che riveste un’importanza decisiva per l’attuazione del PNRR. Nello specifico, l’art. 45 del d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, sulla scorta degli orientamenti della giurisprudenza contabile, ha ‘riscritto’ la disciplina delle cd. attività tecniche incentivabili. Alla luce della novità legislativa, è da chiedersi quale spazio residui per l’applicazione del principio generale ex art. 24, c. 3 T.U.P.I.Con il presente lavoro si propone di esaminare la disciplina del trattamento economico della dirigenza pubblica, al fine di verificarne la ‘tenuta’, sia nella più recente giurisprudenza amministrativa e contabile in materia sia nella contrattazione collettiva della tornata 2019-2021. Inoltre, sarà indagata l’incidenza di tale disciplina sui connotati di autonomia e responsabilità del management pubblico, nella consapevolezza che il salto di qualità nella capacità amministrativa a livello centrale e locale, imposto dal PNRR, passa anche dalla valorizzazione dello status professionale dei vertici dell’amministrazione.
SGROI, A. (2024). Onnicomprensività e riserva collettiva del trattamento economico : quali prospettive per la dirigenza pubblica?. In A. Boscati, A. Zilli (a cura di), Il trattamento economico nella pubblica amministrazione. Regole e responsabilità nell’erogazione dei trattamenti economici. Volume III. (pp. 195-217). Milano : Wolters Kluwer Italia S.r.l..
Onnicomprensività e riserva collettiva del trattamento economico : quali prospettive per la dirigenza pubblica?
SGROI, Andrea
2024-12-01
Abstract
Sin dai primordi della riforma del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, la questione del trattamento economico del dirigente è stata oggetto di particolare interesse e di diversi ‘rimaneggiamenti’, da parte del legislatore. Nell’attuale formulazione, l’art. 24 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (d’ora in poi T.U.P.I.) assegna al contratto collettivo ed a quello individuale la determinazione del trattamento retributivo del personale dirigenziale, ancorando la parte accessoria dello stesso “alle funzioni attribuite, alle connesse responsabilità e ai risultati conseguiti” e specificando i criteri a cui la fonte pattizia deve attenersi nella regolazione della componente legata al risultato. Inoltre, la disposizione precisa che la retribuzione "remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai dirigenti in base a quanto previsto” dal Testo unico, nonché “qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall'amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa". La correlazione tra il principio della riserva collettiva e quello dell’onnicomprensività del trattamento economico è da tempo rimarcata dalla giurisprudenza amministrativa e contabile, la quale mette in evidenza come tali principi siano complementari nel perseguimento dell’obbiettivo del contenimento della spesa pubblica. Al contempo, nelle intenzioni del legislatore, il sistema definito dall’art. 24 T.U.P.I. avrebbe dovuto facilitare, nel suo insieme, il raggiungimento degli standard di professionalità, responsabilità e autonomia della dirigenza pubblica. Nonostante il lungo tempo trascorso dalla sua entrata in vigore, l’applicazione della disciplina sul trattamento economico della dirigenza non è rimasta esente da problemi interpretativi e valutazioni di opportunità. Anzitutto, è discutibile che il congegno legislativo abbia consentito un reale risparmio per l’erario pubblico, considerato il ricorso frequente delle p.a. all’affidamento di incarichi all’esterno, l’erogazione di quote significative del trattamento accessorio tramite meccanismi di valutazione generosi (se non, addirittura fittizi) dell’operato dirigenziale, oltreché le distorsioni ‘consociative’ della negoziazione collettiva di area, che si sono spesso risolte in aumenti della dote finanziaria destinata alle retribuzioni. Ancora, con riguardo alle relazioni sindacali, residua il tentativo di tutelare l’autonomia dirigenziale mediante misure di tipo economico. Nello specifico, anche nell’ultima tornata contrattuale, ha trovato conferma la “Clausola di salvaguardia economica”, il cui scopo è tutelare i dirigenti che, a seguito di riassetti organizzativi, si vedano revocato l’incarico in corso e conferite nuove funzioni, cui sono associate retribuzioni di posizione di livello inferiore rispetto a quelle in godimento. Quest’ultima solleva dubbi di legittimità, poiché si pone in limine tra la materia del trattamento retributivo, oggetto della riserva collettiva, ed una chiaramente riservata alla regolazione unilaterale, ovverosia quella del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali; ciò sebbene la Corte dei conti abbia avvallato la legittimità di tali clausole in sede di certificazione dei rispettivi contratti collettivi. Da un’altra prospettiva, lo stesso istituto negoziale è suscettibile di creare discrasie nel sistema, considerata la prassi di adottare processi di riorganizzazione del personale al solo scopo di revocare incarichi dirigenziali, pur in assenza di valutazione negativa. Sul piano del rapporto individuale di lavoro, invece, la precarizzazione della dirigenza e la sua persistente fidelizzazione al potere politico minacciano la funzione assolta dal principio di onnicomprensività, nell’applicazione rigorosa affermata dalla giurisprudenza, in forza del quale non può essere remunerata ogni attività dirigenziale riconducibile alla sfera di azione dell’ente di appartenenza. Non è infrequente che il dirigente accetti incarichi ulteriori senza un miglioramento delle condizioni retributive ed il conseguente aggravio di spesa, allo scopo di conservare la fiducia del soggetto politico e ottenere ulteriori sviluppi di carriera. Attualmente, l’applicazione del principio di onnicomprensività solleva delicati problemi interpretativi, con riguardo al regime di affidamento degli incarichi nel settore dei contratti pubblici, che riveste un’importanza decisiva per l’attuazione del PNRR. Nello specifico, l’art. 45 del d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, sulla scorta degli orientamenti della giurisprudenza contabile, ha ‘riscritto’ la disciplina delle cd. attività tecniche incentivabili. Alla luce della novità legislativa, è da chiedersi quale spazio residui per l’applicazione del principio generale ex art. 24, c. 3 T.U.P.I.Con il presente lavoro si propone di esaminare la disciplina del trattamento economico della dirigenza pubblica, al fine di verificarne la ‘tenuta’, sia nella più recente giurisprudenza amministrativa e contabile in materia sia nella contrattazione collettiva della tornata 2019-2021. Inoltre, sarà indagata l’incidenza di tale disciplina sui connotati di autonomia e responsabilità del management pubblico, nella consapevolezza che il salto di qualità nella capacità amministrativa a livello centrale e locale, imposto dal PNRR, passa anche dalla valorizzazione dello status professionale dei vertici dell’amministrazione.File | Dimensione | Formato | |
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