Dopo dodici anni di giudizio, l’accidentata accusa, formulata dalla procura di Palermo nel 2012, di un disegno trattativistico di “Cosa nostra”, volto a condizionare le scelte politiche nel contrasto alla mafa, intimidendo direttamente esponenti delle istituzioni democratiche — accusa sostenuta dai media e dalla piazza pubblica, inizialmente confortata dai giudici di primo grado —, è stata confutata in appello e poi ulteriormente ridimensionata dalla Cassazione. Il risultato, oltre ai drammatici costi umani imposti dal processo, mostra il prodursi sui tre distinti livelli di: a) una verità mediatica insoddisfacente per autori e vittime, poco chiarifcatrice, partigiana; b) una verità storica, che pure individuando ambigue relazioni trattativistiche risalenti tra la mafa e l’autorità giudiziaria, è giunta convincentemente a negare, in una fase politica, quella del 1992-1993 di confusa transizione, un organico progetto criminale dello Stato; c)infine, una verità processuale vissuta come contraddittoria nelle diverse fasi dell’accertamento, nonché tardiva e incapace di rivelarsi soddisfacente rispetto allo stesso bisogno di giustizia della comunità di cittadini. Questa la cornice nella quale inserire le molte questioni processuali che hanno contraddistinto le fasi di merito e sono giunte all’attenzione dei giudici di legittimità spaziando dalle modalità di assunzione della testimonianza del presidente della Repubblica, al regime della connessione, all’inesistenza dei contestati e plurimi bis in idem, convergendo nel centrale e complesso rapporto tra imputazione processuale, dimostrazione degli addebiti, dubbio ragionevole, stile delle sentenze.
Paola Maggio (2024). I risvolti processuali nella trattativa Stato-mafia. IL FORO ITALIANO, 10, 575-600.
I risvolti processuali nella trattativa Stato-mafia
Paola Maggio
2024-11-01
Abstract
Dopo dodici anni di giudizio, l’accidentata accusa, formulata dalla procura di Palermo nel 2012, di un disegno trattativistico di “Cosa nostra”, volto a condizionare le scelte politiche nel contrasto alla mafa, intimidendo direttamente esponenti delle istituzioni democratiche — accusa sostenuta dai media e dalla piazza pubblica, inizialmente confortata dai giudici di primo grado —, è stata confutata in appello e poi ulteriormente ridimensionata dalla Cassazione. Il risultato, oltre ai drammatici costi umani imposti dal processo, mostra il prodursi sui tre distinti livelli di: a) una verità mediatica insoddisfacente per autori e vittime, poco chiarifcatrice, partigiana; b) una verità storica, che pure individuando ambigue relazioni trattativistiche risalenti tra la mafa e l’autorità giudiziaria, è giunta convincentemente a negare, in una fase politica, quella del 1992-1993 di confusa transizione, un organico progetto criminale dello Stato; c)infine, una verità processuale vissuta come contraddittoria nelle diverse fasi dell’accertamento, nonché tardiva e incapace di rivelarsi soddisfacente rispetto allo stesso bisogno di giustizia della comunità di cittadini. Questa la cornice nella quale inserire le molte questioni processuali che hanno contraddistinto le fasi di merito e sono giunte all’attenzione dei giudici di legittimità spaziando dalle modalità di assunzione della testimonianza del presidente della Repubblica, al regime della connessione, all’inesistenza dei contestati e plurimi bis in idem, convergendo nel centrale e complesso rapporto tra imputazione processuale, dimostrazione degli addebiti, dubbio ragionevole, stile delle sentenze.File | Dimensione | Formato | |
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