Scrivo una etnografia sul lutto, adottando uno sguardo ravvicinato sul mio vissuto e sull’amalgama di processi cognitivi, emotivi e somatici che lo caratterizzano. Attraverso nozioni attraversando me stesso e i legami sociali che ho incontrato nel mio cammino di soggetto tra altri soggetti. Un viaggio in treno è l’occasione per riflettere sui micro-rituali d’ordine cognitivo e somatico che riguardano il “periodo di passaggio” da uno status all’altro del soggetto: dal morire alla morte di un parente caro. Mi interrogo in prima persona, di conseguenza, sull’intreccio stretto stabilito tra vivere e morire. Le emozioni si manifestano e si intrecciano alle riflessioni prodotte in chiave antropologica. Mi lascio andare al loro intreccio, nonostante il mio tentativo sia diretto alla sottrazione del ruolo di fondamento originario in apparenza posseduto dal soggetto osservatore: un soggetto da me riproposto, più efficacemente, come funzione di interazioni e contesti d’uso. Al di là di un’idea di identità cristallizzata e univoca, mi concentro sulle pratiche plurali del soggetto inteso come modalità di inserzione e di funzionamento tra gli altri soggetti e spazi consentiti dal reale e dall’immaginario. Più che sulla morte, in definitiva, rifletto sul morire come processo in divenire; più che sul rituale teoricamente circoscritto, rifletto sul suo darsi come coacervo inestricabile di cognizione, emozione e sensorialità passato al setaccio degli schermi – immaginari e reali – posti in essere durante il processo stesso. In ultima analisi, la morte come rappresentazione – definizione cara a Hertz e Van Gennep – cede il passo a un punto di vista che pone l’attenzione sui processi stessi. In questa prospettiva, questa autoetnografia può essere considerata, a ragione, un affondo epistemologico sulla questione relativa alla rappresentazione e al lavoro svolto dall’antropologo in un mondo in cui i ruoli sono sempre più miscelati. Si può ben dire, dunque, in contrappunto, che questa autoetnografia è anche una immersione nel dettaglio dell’esperienza vissuta, nel dialogo stabilito tra scrittura e dimensione processuale, tra immagine in contesto e trasposizione in testo, tra etnografia delle soglie ed etnografia del divenire.
Montes, S. (2024). Vivere e morire. Una rapsodia etnografica. Lago (CS) : Il Sileno.
Vivere e morire. Una rapsodia etnografica
Montes, Stefano
2024-01-01
Abstract
Scrivo una etnografia sul lutto, adottando uno sguardo ravvicinato sul mio vissuto e sull’amalgama di processi cognitivi, emotivi e somatici che lo caratterizzano. Attraverso nozioni attraversando me stesso e i legami sociali che ho incontrato nel mio cammino di soggetto tra altri soggetti. Un viaggio in treno è l’occasione per riflettere sui micro-rituali d’ordine cognitivo e somatico che riguardano il “periodo di passaggio” da uno status all’altro del soggetto: dal morire alla morte di un parente caro. Mi interrogo in prima persona, di conseguenza, sull’intreccio stretto stabilito tra vivere e morire. Le emozioni si manifestano e si intrecciano alle riflessioni prodotte in chiave antropologica. Mi lascio andare al loro intreccio, nonostante il mio tentativo sia diretto alla sottrazione del ruolo di fondamento originario in apparenza posseduto dal soggetto osservatore: un soggetto da me riproposto, più efficacemente, come funzione di interazioni e contesti d’uso. Al di là di un’idea di identità cristallizzata e univoca, mi concentro sulle pratiche plurali del soggetto inteso come modalità di inserzione e di funzionamento tra gli altri soggetti e spazi consentiti dal reale e dall’immaginario. Più che sulla morte, in definitiva, rifletto sul morire come processo in divenire; più che sul rituale teoricamente circoscritto, rifletto sul suo darsi come coacervo inestricabile di cognizione, emozione e sensorialità passato al setaccio degli schermi – immaginari e reali – posti in essere durante il processo stesso. In ultima analisi, la morte come rappresentazione – definizione cara a Hertz e Van Gennep – cede il passo a un punto di vista che pone l’attenzione sui processi stessi. In questa prospettiva, questa autoetnografia può essere considerata, a ragione, un affondo epistemologico sulla questione relativa alla rappresentazione e al lavoro svolto dall’antropologo in un mondo in cui i ruoli sono sempre più miscelati. Si può ben dire, dunque, in contrappunto, che questa autoetnografia è anche una immersione nel dettaglio dell’esperienza vissuta, nel dialogo stabilito tra scrittura e dimensione processuale, tra immagine in contesto e trasposizione in testo, tra etnografia delle soglie ed etnografia del divenire.File | Dimensione | Formato | |
---|---|---|---|
VOLUME MONTES 29-10.pdf
accesso aperto
Descrizione: Intera monografia
Tipologia:
Versione Editoriale
Dimensione
2.6 MB
Formato
Adobe PDF
|
2.6 MB | Adobe PDF | Visualizza/Apri |
I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.