In questo contributo avanzo l’ipotesi che la traduzione sia un vero e proprio processo antropologico che mette in tensione uno sguardo del soggetto, il metodo utilizzato, la cultura di riferimento. Centrale in questo processo è la riflessione sul testo (e sulle sue frontiere) e sulle nozioni limitrofe di sintesi, progetto, pratica. Una traduzione, al pari di una sintesi, è una pratica e al contempo un progetto che si fonda su un processo di inclusione e di esclusione. In quanto pratica, la traduzione è sottoposta al divenire del singolo individuo che traduce in base alle proprie intuizioni e agli orientamenti del momento; in quanto progetto, essa è una configurazione di principi che ordinano e fissano un programma cui il traduttore desidera attenersi. Un progetto si modifica nel tempo e nella variabilità della cultura; una pratica retroagisce inevitabilmente sul progetto e lo trasforma. Per meglio circoscrivere la questione, mi sono avvalso della celebre dicotomia di langue e parole formulata da Saussure: un traduttore è inevitabilmente costretto ad adeguarsi a una langue, un sistema di relazioni che lo precede e all’interno del quale, spesso inconsapevolmente, bagna; al contempo, un traduttore può (e deve) operare delle scelte che definiscono singolarmente la sua poetica e il suo stile. Questo duplice punto di vista sulla traduzione consente di risolvere, all’interno di una antropologia delle culture e dei testi, l’annoso problema dell’origine e dell’originale. Esso costituisce inoltre un utile trampolino teorico per la disamina metalinguistica delle figure a cui fanno riferimento altri teorici: il traduttore in quanto lettore, scrittore, destinatario, analista, comparatista, interprete, dialogante, etc. Nella seconda parte del contributo, utilizzo queste figure e paralleli per aprire criticamente la via a un’epistemologia delle teorie e dei processi traduttivi su base semio-antropologica. A questo proposito, rileggo il modello esa-funzionale della comunicazione di Jakobson in chiave epistemologica e affermo che le diverse teorie si posizionano, di volta in volta, sulla funzione dell’emittente (teorie che valorizzano il concetto di origine), del destinatario (teorie che vertono sulla ricezione), del testo (teorie strutturaliste), del contesto (teorie che mettono l’accento sul processo e sugli aspetti pragmatici), del contatto (?), del codice (teorie che privilegiano il metalinguaggio). Una teoria della traduzione è il risultato di una selezione di categorie del piano del contenuto e un posizionamento su uno (o più) poli del modello della comunicazione. In questa prospettiva, sostengo che la ‘traduzione’ prima ancora che un risultato è un ‘tradurre’ (un processo intersemiotico) che agisce su di noi (e sugli altri) nel continuo passaggio che si richiede dall’esperienza ai testi.

Montes, S. (2009). Tradurre. Progetti e pratiche all’infinito. In V. Pecoraro (a cura di), Atti del convegno. Giornate internazionali di studio sulla traduzione (pp. 221-234). Palermo : Herbita.

Tradurre. Progetti e pratiche all’infinito

MONTES, Stefano
2009-01-01

Abstract

In questo contributo avanzo l’ipotesi che la traduzione sia un vero e proprio processo antropologico che mette in tensione uno sguardo del soggetto, il metodo utilizzato, la cultura di riferimento. Centrale in questo processo è la riflessione sul testo (e sulle sue frontiere) e sulle nozioni limitrofe di sintesi, progetto, pratica. Una traduzione, al pari di una sintesi, è una pratica e al contempo un progetto che si fonda su un processo di inclusione e di esclusione. In quanto pratica, la traduzione è sottoposta al divenire del singolo individuo che traduce in base alle proprie intuizioni e agli orientamenti del momento; in quanto progetto, essa è una configurazione di principi che ordinano e fissano un programma cui il traduttore desidera attenersi. Un progetto si modifica nel tempo e nella variabilità della cultura; una pratica retroagisce inevitabilmente sul progetto e lo trasforma. Per meglio circoscrivere la questione, mi sono avvalso della celebre dicotomia di langue e parole formulata da Saussure: un traduttore è inevitabilmente costretto ad adeguarsi a una langue, un sistema di relazioni che lo precede e all’interno del quale, spesso inconsapevolmente, bagna; al contempo, un traduttore può (e deve) operare delle scelte che definiscono singolarmente la sua poetica e il suo stile. Questo duplice punto di vista sulla traduzione consente di risolvere, all’interno di una antropologia delle culture e dei testi, l’annoso problema dell’origine e dell’originale. Esso costituisce inoltre un utile trampolino teorico per la disamina metalinguistica delle figure a cui fanno riferimento altri teorici: il traduttore in quanto lettore, scrittore, destinatario, analista, comparatista, interprete, dialogante, etc. Nella seconda parte del contributo, utilizzo queste figure e paralleli per aprire criticamente la via a un’epistemologia delle teorie e dei processi traduttivi su base semio-antropologica. A questo proposito, rileggo il modello esa-funzionale della comunicazione di Jakobson in chiave epistemologica e affermo che le diverse teorie si posizionano, di volta in volta, sulla funzione dell’emittente (teorie che valorizzano il concetto di origine), del destinatario (teorie che vertono sulla ricezione), del testo (teorie strutturaliste), del contesto (teorie che mettono l’accento sul processo e sugli aspetti pragmatici), del contatto (?), del codice (teorie che privilegiano il metalinguaggio). Una teoria della traduzione è il risultato di una selezione di categorie del piano del contenuto e un posizionamento su uno (o più) poli del modello della comunicazione. In questa prospettiva, sostengo che la ‘traduzione’ prima ancora che un risultato è un ‘tradurre’ (un processo intersemiotico) che agisce su di noi (e sugli altri) nel continuo passaggio che si richiede dall’esperienza ai testi.
2009
Settore M-DEA/01 - Discipline Demoetnoantropologiche
Montes, S. (2009). Tradurre. Progetti e pratiche all’infinito. In V. Pecoraro (a cura di), Atti del convegno. Giornate internazionali di studio sulla traduzione (pp. 221-234). Palermo : Herbita.
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