Lo studio dei ruoli femminili in Cosa Nostra, pone di fronte alla necessità di destrutturare alcuni pregiudizi che, su questo argomento, si sono consolidati nel tempo; primo fra tutti, quello legato a una rappresentazione delle donne di mafia che vede sottodimensionata la loro partecipazione alle attività criminali dell’organizzazione, mentre ne enfatizza la presenza nella dimensione familiare, fondandola su componenti emotive e su valori “tradizionali”. Tale rappresentazione –diffusa e condivisa sia all’interno che all’esterno dei contesti mafiosi – oltre a essere il frutto di una riflessione superficiale sul fenomeno, si è rivelata a lungo funzionale alle finalità criminali dell’organizzazione, che della presunta estraneità femminile ha potuto a lungo beneficiare trovando nelle donne – ampiamente coinvolte nella vita quotidiana dell’organizzazione – quasi una valvola di sicurezza, un territorio di sicura impunità, un luogo mai soggetto a sguardi indiscreti. Un primo correttivo da apportare, riguarda i modelli cognitivi utilizzati e comporta la presa d’atto che l’universo mafioso non rappresenta un sottomondo isolato, abitato da soggetti “altri”, ma è una porzione della nostra società nella quale risultano accentuate – sia per le finalità criminali dell’organizzazione, sia per i modelli volutamente tradizionalisti adottati nelle relazioni interpersonali – le caratteriste e i tratti culturali dell’ambiente circostante. Se di esclusione femminile si poteva e si può parlare, questa va vista in stretta connessione con le situazioni di emarginazione e di minorità che contraddistinguono le relazioni tra le donne e gli uomini nella gestione della sfera del potere. Donne, apparentemente escluse e estranee dall’universo mafioso perché volutamente relegate ai margini. Ma anche perché le finalità e le azioni del consesso criminale, la sua stretta relazione con la sfera del potere e della gestione della cosa pubblica, difficilmente rientra – in situazioni di “normalità” – entro competenze e mansioni riconosciute specificatamente come “femminili”. Se a questo si aggiunge il fatto che un eventuale riconoscimento pubblico della presenza delle donne nei contesti mafiosi, oltre ché far venir meno un solido alleato, contribuirebbe a togliere la patina di opacità che nel tempo ha reso invisibile le loro figure, ci si accorge di quanto alta sia la posta in gioco. Percorrendo la storia e gli strumenti attraverso i quali si manifesta il “potere” delle donne di mafia e la violenza da loro agita – ma più spesso subita e/o condivisa con gli uomini dell’organizzazione – il saggio si sofferma ad esplorare il potere della parola femminile dentro il mondo di Cosa Nostra. La presenza femminile nel mondo delle mafie, prima addomesticata e poi accettata per ragioni strumentali, mette in tensione dall’interno le dinamiche mafiose, scardinandone la struttura attraverso l’applicazione di una prospettiva di genere. Di una parola – scritta o parlata che sia – connotata da una specificità di genere (o forse solo libera dai legami con la falsa neutralità del linguaggio maschile), colpisce innanzitutto la forza destrutturante con la quale è possibile trasformare le logiche opprimenti in processi di autocoscienza; rompere gli automatismi della socializzazione differenziale e della subcultura sessuale dai quali è pervasa la nostra quotidianità; metterne a nudo gli effetti narcotizzanti del simbolico, ben descritti da Goffman e da Bourdieu. Tutto procede speditamente, quasi fosse naturale fino a quando l’ordine non viene messo in discussione. E allora, la repressione della disobbedienza – anche di quella “solo” verbale – è estremamente violenta. Il linguaggio che nomina quanto dentro il mondo di Cosa Nostra è indicibile si trasforma in un’arma capace di rompere l’alienazione del pensiero unico maschile e mafioso. Il linguaggio – anche quello violento, ambiguo, allusivo e opprimente della mafia, caratterizzato da malintesi e obliquità semantiche – che si appropria simbolicamente dei soggetti, imbrigliando la loro soggettività e familiarizzandoli alla violenza è l’unico strumento in grado di ribaltare la situazione di subalternità femminile. È nella ri-appropriazione della parola – scritta o parlata che sia – una parola che esprime e rappresenta la diversità soggettiva del genere, che avviene per le donne il transito – più o meno compiuto, più o meno consapevole, e direi anche più o meno autentico – dal dentro al fuori. Il riscatto femminile matura spesso attraverso il racconto e la narrazione; l’espressione della propria identità è resa possibile nel linguaggio. Si tratta però di un cammino reso insidioso dalle mille trappole culturali che possono trasformare in un dono avvelenato ogni forma di “indulgenza” che la società dimostri nei riguardi delle donne.

Dino A. (2015). Il linguaggio delle donne fuoriuscite dalle mafie. SEGNO, XLI(362), 72-84.

Il linguaggio delle donne fuoriuscite dalle mafie

DINO, Alessandra
2015-01-01

Abstract

Lo studio dei ruoli femminili in Cosa Nostra, pone di fronte alla necessità di destrutturare alcuni pregiudizi che, su questo argomento, si sono consolidati nel tempo; primo fra tutti, quello legato a una rappresentazione delle donne di mafia che vede sottodimensionata la loro partecipazione alle attività criminali dell’organizzazione, mentre ne enfatizza la presenza nella dimensione familiare, fondandola su componenti emotive e su valori “tradizionali”. Tale rappresentazione –diffusa e condivisa sia all’interno che all’esterno dei contesti mafiosi – oltre a essere il frutto di una riflessione superficiale sul fenomeno, si è rivelata a lungo funzionale alle finalità criminali dell’organizzazione, che della presunta estraneità femminile ha potuto a lungo beneficiare trovando nelle donne – ampiamente coinvolte nella vita quotidiana dell’organizzazione – quasi una valvola di sicurezza, un territorio di sicura impunità, un luogo mai soggetto a sguardi indiscreti. Un primo correttivo da apportare, riguarda i modelli cognitivi utilizzati e comporta la presa d’atto che l’universo mafioso non rappresenta un sottomondo isolato, abitato da soggetti “altri”, ma è una porzione della nostra società nella quale risultano accentuate – sia per le finalità criminali dell’organizzazione, sia per i modelli volutamente tradizionalisti adottati nelle relazioni interpersonali – le caratteriste e i tratti culturali dell’ambiente circostante. Se di esclusione femminile si poteva e si può parlare, questa va vista in stretta connessione con le situazioni di emarginazione e di minorità che contraddistinguono le relazioni tra le donne e gli uomini nella gestione della sfera del potere. Donne, apparentemente escluse e estranee dall’universo mafioso perché volutamente relegate ai margini. Ma anche perché le finalità e le azioni del consesso criminale, la sua stretta relazione con la sfera del potere e della gestione della cosa pubblica, difficilmente rientra – in situazioni di “normalità” – entro competenze e mansioni riconosciute specificatamente come “femminili”. Se a questo si aggiunge il fatto che un eventuale riconoscimento pubblico della presenza delle donne nei contesti mafiosi, oltre ché far venir meno un solido alleato, contribuirebbe a togliere la patina di opacità che nel tempo ha reso invisibile le loro figure, ci si accorge di quanto alta sia la posta in gioco. Percorrendo la storia e gli strumenti attraverso i quali si manifesta il “potere” delle donne di mafia e la violenza da loro agita – ma più spesso subita e/o condivisa con gli uomini dell’organizzazione – il saggio si sofferma ad esplorare il potere della parola femminile dentro il mondo di Cosa Nostra. La presenza femminile nel mondo delle mafie, prima addomesticata e poi accettata per ragioni strumentali, mette in tensione dall’interno le dinamiche mafiose, scardinandone la struttura attraverso l’applicazione di una prospettiva di genere. Di una parola – scritta o parlata che sia – connotata da una specificità di genere (o forse solo libera dai legami con la falsa neutralità del linguaggio maschile), colpisce innanzitutto la forza destrutturante con la quale è possibile trasformare le logiche opprimenti in processi di autocoscienza; rompere gli automatismi della socializzazione differenziale e della subcultura sessuale dai quali è pervasa la nostra quotidianità; metterne a nudo gli effetti narcotizzanti del simbolico, ben descritti da Goffman e da Bourdieu. Tutto procede speditamente, quasi fosse naturale fino a quando l’ordine non viene messo in discussione. E allora, la repressione della disobbedienza – anche di quella “solo” verbale – è estremamente violenta. Il linguaggio che nomina quanto dentro il mondo di Cosa Nostra è indicibile si trasforma in un’arma capace di rompere l’alienazione del pensiero unico maschile e mafioso. Il linguaggio – anche quello violento, ambiguo, allusivo e opprimente della mafia, caratterizzato da malintesi e obliquità semantiche – che si appropria simbolicamente dei soggetti, imbrigliando la loro soggettività e familiarizzandoli alla violenza è l’unico strumento in grado di ribaltare la situazione di subalternità femminile. È nella ri-appropriazione della parola – scritta o parlata che sia – una parola che esprime e rappresenta la diversità soggettiva del genere, che avviene per le donne il transito – più o meno compiuto, più o meno consapevole, e direi anche più o meno autentico – dal dentro al fuori. Il riscatto femminile matura spesso attraverso il racconto e la narrazione; l’espressione della propria identità è resa possibile nel linguaggio. Si tratta però di un cammino reso insidioso dalle mille trappole culturali che possono trasformare in un dono avvelenato ogni forma di “indulgenza” che la società dimostri nei riguardi delle donne.
2015
Settore SPS/12 - Sociologia Giuridica, Della Devianza E Mutamento Sociale
Settore SPS/08 - Sociologia Dei Processi Culturali E Comunicativi
Dino A. (2015). Il linguaggio delle donne fuoriuscite dalle mafie. SEGNO, XLI(362), 72-84.
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