Nell’omaggio commosso dedicato all’amico-nemico prematuramente scomparso, Sartre segnalava la forte risonanza che la storia personale di Merleau-Ponty aveva avuto nella scansione della sua filosofia, tanto forte da poterla considerare al limite un’autobiografia2. Il richiamo sartriano appariva tanto più credibile perché, nel delineare il profilo teorico-esistenziale dell’impresa merleau-pontyana, il padre dell’esistenzialismo francese sbozzava un suo personalissimo autoritratto. A corroborare quanto detto ci giunge puntuale il monito che lo stesso Merleau-Ponty affidava alla Premessa della Fenomenologia della Percezione: «[...] il pensatore non pensa mai se non a partire da ciò che è. La riflessione [...] sarà totale solo se realizza, [...] e se riesce a ricollocare le cause [...] in una struttura d’esistenza»3. Esiste, allora, un intreccio profondo tra biografia e filosofia che non è possibile trascurare, pena la rinuncia a una [auto]comprensione, se non completa, quantomeno tentata. È, perciò, sullo sfondo di questa assunzione che intendiamo compiere la prima mossa di questo lavoro allo scopo di manifestarne le questioni, il metodo e per così dire l’atmosfera filosofica che lo innervano. Procediamo con ordine, si diceva delle questioni. Se il vasto campo dei problemi entro cui questa ricerca intende istaurarsi, a volte suo malgrado, potessero condensarsi in una formula, crediamo che la migliore possa essere questa: muoversi sulla soglia dell’incessante sopravanzarsi tra costituente e costituito. Tuttavia, parafrasando Wittgenstein, le formule hanno spesso la consistenza di finti cornicioni che non reggono nulla4. Converrà, quindi, munirsi di pazienza e tentare di descrivere meglio le prese tematiche che s’agiteranno in questo lavoro. L’argomento centrale su cui esso intende aggrumarsi è l’intreccio tra corpo e linguaggio che, ancora, così illustrato non sfugge alla genericità delle espressioni-etichette spalancando, peraltro, uno spazio tematico tanto vasto, che la sola idea di non operare dei tagli prospettici si palesa vana o peggio pretestuosa. Dunque, riformuliamo nuovamente la questione apportandole le dovute cesure che ne circoscrivano l’ambito teorico. Parliamo di cesure al plurale perché sul nostro leitmotiv faremo reagire simultaneamente due diverse incisioni. La prima. guarderemo all’intreccio corpo-linguaggio dall’angolatura che sulla questione ha assunto Merleau-Ponty. La seconda: individueremo nello spazio tra di questa polarizzazione una nozione, quella di voce, che come avremo modo di mostrare si configura come il gorgo dinamico in cui sempre di nuovo si rinnova l’aggancio e sopravanzo dialettico cui accennavamo. Ma vediamo in dettaglio come ci prefiguriamo quest’intervento cercando di localizzare ulteriormente il campo d’azione per sgombrarlo da inutili fraintendimenti. È fuor di dubbio, invero, che trattare integralmente lo svolgimento della riflessione merleau-pontyana richiederebbe l’intero spazio concesso a una tesi di ricerca. Troppi gli aggregati storici-filosofici che la alimentano, troppi gli obiettivi teorici che la qualificano, troppi i paradigmi interdisciplinari che vi convergono, troppi persino i punti nevralgici su cui a più riprese il filosofo francese è spesso ritornato in direzione ostinata e contraria. Se a questo si aggiunge l’eclettismo e la frammentarietà5 che caratterizzano il suo pensiero più maturo, s’intuisce facilmente come nella scelta che qui si è perseguita si sia dovuto adoperare il bisturi. Non ingaggeremo, dunque, se non quando necessario e sovente relegandola in nota, alcuna disputa esegetica, né alimenteremo la già corposa bibliografia merleau-pontyana, in quanto la scommessa che ci apprestiamo a giocare non insiste su Merleau-Ponty ma con Merleau-Ponty.Si comprenderà, allora, come il tema di questo lavoro non intenda illuminare la riflessione del filosofo francese ma farsi illuminare da questa, come lo scopo qui agognato non sia quello di tagliuzzare e discutere schegge del suo pensiero, quanto piuttosto impossessarsi e dirigere altrove alcune sue linee di forza. Perciò, anche quando ci soffermeremo, come nel I capitolo, sui motivi ispiratori o su alcuni rapporti che attraversano la speculazione merleau-pontyana, la posta in gioco non sarà rappresentata da improbabili nuove acquisizioni interpretative ma dallo schiarimento delle ragioni e degli abbrivi argomentativi. Limitandoci a un esempio. Quando schizzeremo un ritratto filosofico di Merleau-Ponty e la sua polemica contro Cartesio e le filosofie empiriste, o la sua posizione nel campo della fenomenologia tra i due contendenti più celebri Husserl e Heidegger, lo scopo non sarà di discuterne la validità storico-teorica, bensì di evidenziarne i più ampi bersagli che la proiettano prepotentemente nel dibattito filosofico-scientifico odierno. Detto meglio: alla cartesiana dicotomia tra res cogitans e res extensa, che tutt’oggi si sgrava di nefaste conseguenze, Merleau-Ponty oppone una proposta che reinstalla la filosofia sulla soglia mobile di compimento che anticipa qualsiasi riflessione, in quel mondo-della-vita in cui l’intreccio tra storia e natura, tra soggetto e oggetto, tra anima6 e corpo è sempre già dato e sempre da compiersi. In definitiva, volendo sagomare meglio il nostro approssimarci al tessuto merleau-pontyano, diremo che in esso ci riconosciamo per la tensione di fondo che spinge o meglio retrocede la filosofia all’esistenza; di esso assumeremo alcune nozioni teoriche (carne, reversibilità, parola parlante/parola parlata, ecc.) in grazia delle quali svolgeremo il nostro discorso; con esso articoleremo tutti quei confronti e quegli innesti che ci consentiranno un qualsivoglia avanzamento nella ricerca per poi, alfine, da esso dipanare tutti i fili che aggrovigliano quell’interrogazione la cui stoffa coincide colla propria carne. Fin qui il primo dei due tagli prospettici. Vediamo l’altro, per introdurre il quale utilizzerò un frammento tratto dal racconto Un re in ascolto di Italo Calvino: «Quella voce viene certamente da una persona, unica, irripetibile come ogni persona, però una voce non è una persona, è qualcosa di sospeso nell’aria, staccato dalla solidità delle cose. Anche la voce è unica e irripetibile, ma forse in un altro modo da quello della persona: potrebbero, voce e persona non assomigliarsi. Oppure assomigliarsi in un modo segreto, che non si vede a prima vista: la voce potrebbe essere l’equivalente di quanto la persona ha di più nascosto e di più vero. [...] la vibrazione di una gola di carne. Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci. Una voce mette in gioco l’ugola, la saliva, l’infanzia, la patina della vita vissuta, le intenzioni della mente, il piacere di dare una propria forma alle onde sonore. Ciò che ti attira è il piacere che questa voce mette nell’esistere: nell’esistere come voce [...]»7 Non vogliamo per il momento soffermarci su un’interpretazione filosofica del brano, essa maturerà come leit motiv lungo tutto il terzo capitolo, piuttosto ci concentreremo sulle immediate sporgenze che esso ci offre per dettagliare il secondo dei nostri tagli prospettici: la voce. Nel passo citato Calvino descrive acutamente la voce come qualcosa di “sospeso nell’aria” e “staccato dalla solidità delle cose” e contemporaneamente come “la vibrazione di una gola di carne”. Essa ha dunque un’ambiguità d’aspetto: volatile e impalpabile è al contempo carnale, viscerale, colma d’intenzioni e pulsioni. È singolare e potenza differenziale, unica, propria, irripetibile; ma ancora, al contempo, ha sempre il piacere di esistere, di direzionarsi, di dislocarsi in un altro che è attirato da questo piacere. La voce, dunque, annuncia il corpo unico che la produce ma è pronta a scomparire, ad obliarsi lasciando alla sua eco “la patina della vita vissuta”. In essa si realizza un duplice movimento, mai concluso, che sposta e concentra reversibilmente me e l’altro; essa viene da un corpo vivo ma l’oltrepassa e lo tra-duce nell’evento del linguaggio. In altri termini, la voce “è pura esigenza […] aspira a riattualizzarsi incessantemente nel flusso linguistico che essa manifesta e a cui permette di vivere parassitariamente”8. Questi stessi luoghi, crediamo, abbia lambito Merleau-Ponty quando a più riprese nel corso della sua riflessione ha fatto cenno al “senso emozionale della parola”, alla “gesticolazione fonetica”, all’“espressione primordiale” o al “senso langagier”; e benché la voce non sarà mai, o molto raramente, un tema specifico del suo pensiero, sarà qui considerata come l’adombramento, l’implicito, il non detto del filosofo. Certo sarà compito di chi scrive mostrare come essa rappresenti il varco tra corpo e linguaggio, ma la via è tracciata, basta seguirla. Ma ricominciamo ancora una volta da capo articolando, questa volta in bell’ordine, il nostro tema di fondo di modo che almeno alla vista si faccia più luminoso ciò che al pensiero rimane per il momento opaco. C’è “una potenza generale di formulazione motoria”9 che scorre nel mio corpo, che lo spinge verso il mondo e glielo lascia abitare così come esso gli si offre. Questa potenza si polarizza nella percezione. Io vedo, tocco, odo che c’è qualcosa, perché esso si lascia vedere, toccare e udire. Percepisco ciò che vivo per adombramenti perché per adombramenti mi si manifesta. Alcuni profili mi si danno nella piena luce, altri mi si sottraggono e fanno casa nell’umbratile; alcuni dettagli vengono in primo piano quando tutto il resto s’adagia nello sfondo. Posso girarmi, spostami, abbassarmi; posso guardare, toccare, ascoltare o fare le tre cose insieme. In una parola, posso esplorare ciò che mi si manifesta e distribuire nel chiaro ciò che prima s’allungava nell’ombra o portare in primo piano lo sfondo che lo circuiva, ma senza questa dialettica di svelamento/nascondimento di vicinanza/lontananza la mia percezione non sarebbe possibile, poiché tutto si confonderebbe sul medesimo piano. C’è poi una volontà di descrivere, di interrogare, di giudicare questo qualcosa che io ho da sempre alla portata dei miei sensi, questo è ciò che compie il linguaggio. C’è un senso diffuso prima della parola, un’intesa tacita, “sacramentale”, come dirà suggestivamente Merleau-Ponty, tra me e il mondo e c’è un senso articolato, una ripresa che delimita il campo d’azione e pulsionale del mio contatto spontaneo col mondo, trasformando ogni vissuto in vissuto-parlato:Proprio questo lógos universale declinato innanzitutto come phoné, costituirà il varco che tenteremo di esplorare, descrivendo l’ambigua dialettica che dal silenzio corporeo fa emergere i giochi linguistici regolati per poi di colpo, nel prorompere del grido, del riso o del pianto inabissarli ancora nel residuo carnale che eccede ogni codifica
Cicardo, . (2014). L’IMBUTO E IL MEGAFONO CORPO, VOCE, LINGUAGGIO ATTRAVERSO MERLEAU-PONTY.
L’IMBUTO E IL MEGAFONO CORPO, VOCE, LINGUAGGIO ATTRAVERSO MERLEAU-PONTY
CICARDO, Santi
2014-04-09
Abstract
Nell’omaggio commosso dedicato all’amico-nemico prematuramente scomparso, Sartre segnalava la forte risonanza che la storia personale di Merleau-Ponty aveva avuto nella scansione della sua filosofia, tanto forte da poterla considerare al limite un’autobiografia2. Il richiamo sartriano appariva tanto più credibile perché, nel delineare il profilo teorico-esistenziale dell’impresa merleau-pontyana, il padre dell’esistenzialismo francese sbozzava un suo personalissimo autoritratto. A corroborare quanto detto ci giunge puntuale il monito che lo stesso Merleau-Ponty affidava alla Premessa della Fenomenologia della Percezione: «[...] il pensatore non pensa mai se non a partire da ciò che è. La riflessione [...] sarà totale solo se realizza, [...] e se riesce a ricollocare le cause [...] in una struttura d’esistenza»3. Esiste, allora, un intreccio profondo tra biografia e filosofia che non è possibile trascurare, pena la rinuncia a una [auto]comprensione, se non completa, quantomeno tentata. È, perciò, sullo sfondo di questa assunzione che intendiamo compiere la prima mossa di questo lavoro allo scopo di manifestarne le questioni, il metodo e per così dire l’atmosfera filosofica che lo innervano. Procediamo con ordine, si diceva delle questioni. Se il vasto campo dei problemi entro cui questa ricerca intende istaurarsi, a volte suo malgrado, potessero condensarsi in una formula, crediamo che la migliore possa essere questa: muoversi sulla soglia dell’incessante sopravanzarsi tra costituente e costituito. Tuttavia, parafrasando Wittgenstein, le formule hanno spesso la consistenza di finti cornicioni che non reggono nulla4. Converrà, quindi, munirsi di pazienza e tentare di descrivere meglio le prese tematiche che s’agiteranno in questo lavoro. L’argomento centrale su cui esso intende aggrumarsi è l’intreccio tra corpo e linguaggio che, ancora, così illustrato non sfugge alla genericità delle espressioni-etichette spalancando, peraltro, uno spazio tematico tanto vasto, che la sola idea di non operare dei tagli prospettici si palesa vana o peggio pretestuosa. Dunque, riformuliamo nuovamente la questione apportandole le dovute cesure che ne circoscrivano l’ambito teorico. Parliamo di cesure al plurale perché sul nostro leitmotiv faremo reagire simultaneamente due diverse incisioni. La prima. guarderemo all’intreccio corpo-linguaggio dall’angolatura che sulla questione ha assunto Merleau-Ponty. La seconda: individueremo nello spazio tra di questa polarizzazione una nozione, quella di voce, che come avremo modo di mostrare si configura come il gorgo dinamico in cui sempre di nuovo si rinnova l’aggancio e sopravanzo dialettico cui accennavamo. Ma vediamo in dettaglio come ci prefiguriamo quest’intervento cercando di localizzare ulteriormente il campo d’azione per sgombrarlo da inutili fraintendimenti. È fuor di dubbio, invero, che trattare integralmente lo svolgimento della riflessione merleau-pontyana richiederebbe l’intero spazio concesso a una tesi di ricerca. Troppi gli aggregati storici-filosofici che la alimentano, troppi gli obiettivi teorici che la qualificano, troppi i paradigmi interdisciplinari che vi convergono, troppi persino i punti nevralgici su cui a più riprese il filosofo francese è spesso ritornato in direzione ostinata e contraria. Se a questo si aggiunge l’eclettismo e la frammentarietà5 che caratterizzano il suo pensiero più maturo, s’intuisce facilmente come nella scelta che qui si è perseguita si sia dovuto adoperare il bisturi. Non ingaggeremo, dunque, se non quando necessario e sovente relegandola in nota, alcuna disputa esegetica, né alimenteremo la già corposa bibliografia merleau-pontyana, in quanto la scommessa che ci apprestiamo a giocare non insiste su Merleau-Ponty ma con Merleau-Ponty.Si comprenderà, allora, come il tema di questo lavoro non intenda illuminare la riflessione del filosofo francese ma farsi illuminare da questa, come lo scopo qui agognato non sia quello di tagliuzzare e discutere schegge del suo pensiero, quanto piuttosto impossessarsi e dirigere altrove alcune sue linee di forza. Perciò, anche quando ci soffermeremo, come nel I capitolo, sui motivi ispiratori o su alcuni rapporti che attraversano la speculazione merleau-pontyana, la posta in gioco non sarà rappresentata da improbabili nuove acquisizioni interpretative ma dallo schiarimento delle ragioni e degli abbrivi argomentativi. Limitandoci a un esempio. Quando schizzeremo un ritratto filosofico di Merleau-Ponty e la sua polemica contro Cartesio e le filosofie empiriste, o la sua posizione nel campo della fenomenologia tra i due contendenti più celebri Husserl e Heidegger, lo scopo non sarà di discuterne la validità storico-teorica, bensì di evidenziarne i più ampi bersagli che la proiettano prepotentemente nel dibattito filosofico-scientifico odierno. Detto meglio: alla cartesiana dicotomia tra res cogitans e res extensa, che tutt’oggi si sgrava di nefaste conseguenze, Merleau-Ponty oppone una proposta che reinstalla la filosofia sulla soglia mobile di compimento che anticipa qualsiasi riflessione, in quel mondo-della-vita in cui l’intreccio tra storia e natura, tra soggetto e oggetto, tra anima6 e corpo è sempre già dato e sempre da compiersi. In definitiva, volendo sagomare meglio il nostro approssimarci al tessuto merleau-pontyano, diremo che in esso ci riconosciamo per la tensione di fondo che spinge o meglio retrocede la filosofia all’esistenza; di esso assumeremo alcune nozioni teoriche (carne, reversibilità, parola parlante/parola parlata, ecc.) in grazia delle quali svolgeremo il nostro discorso; con esso articoleremo tutti quei confronti e quegli innesti che ci consentiranno un qualsivoglia avanzamento nella ricerca per poi, alfine, da esso dipanare tutti i fili che aggrovigliano quell’interrogazione la cui stoffa coincide colla propria carne. Fin qui il primo dei due tagli prospettici. Vediamo l’altro, per introdurre il quale utilizzerò un frammento tratto dal racconto Un re in ascolto di Italo Calvino: «Quella voce viene certamente da una persona, unica, irripetibile come ogni persona, però una voce non è una persona, è qualcosa di sospeso nell’aria, staccato dalla solidità delle cose. Anche la voce è unica e irripetibile, ma forse in un altro modo da quello della persona: potrebbero, voce e persona non assomigliarsi. Oppure assomigliarsi in un modo segreto, che non si vede a prima vista: la voce potrebbe essere l’equivalente di quanto la persona ha di più nascosto e di più vero. [...] la vibrazione di una gola di carne. Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci. Una voce mette in gioco l’ugola, la saliva, l’infanzia, la patina della vita vissuta, le intenzioni della mente, il piacere di dare una propria forma alle onde sonore. Ciò che ti attira è il piacere che questa voce mette nell’esistere: nell’esistere come voce [...]»7 Non vogliamo per il momento soffermarci su un’interpretazione filosofica del brano, essa maturerà come leit motiv lungo tutto il terzo capitolo, piuttosto ci concentreremo sulle immediate sporgenze che esso ci offre per dettagliare il secondo dei nostri tagli prospettici: la voce. Nel passo citato Calvino descrive acutamente la voce come qualcosa di “sospeso nell’aria” e “staccato dalla solidità delle cose” e contemporaneamente come “la vibrazione di una gola di carne”. Essa ha dunque un’ambiguità d’aspetto: volatile e impalpabile è al contempo carnale, viscerale, colma d’intenzioni e pulsioni. È singolare e potenza differenziale, unica, propria, irripetibile; ma ancora, al contempo, ha sempre il piacere di esistere, di direzionarsi, di dislocarsi in un altro che è attirato da questo piacere. La voce, dunque, annuncia il corpo unico che la produce ma è pronta a scomparire, ad obliarsi lasciando alla sua eco “la patina della vita vissuta”. In essa si realizza un duplice movimento, mai concluso, che sposta e concentra reversibilmente me e l’altro; essa viene da un corpo vivo ma l’oltrepassa e lo tra-duce nell’evento del linguaggio. In altri termini, la voce “è pura esigenza […] aspira a riattualizzarsi incessantemente nel flusso linguistico che essa manifesta e a cui permette di vivere parassitariamente”8. Questi stessi luoghi, crediamo, abbia lambito Merleau-Ponty quando a più riprese nel corso della sua riflessione ha fatto cenno al “senso emozionale della parola”, alla “gesticolazione fonetica”, all’“espressione primordiale” o al “senso langagier”; e benché la voce non sarà mai, o molto raramente, un tema specifico del suo pensiero, sarà qui considerata come l’adombramento, l’implicito, il non detto del filosofo. Certo sarà compito di chi scrive mostrare come essa rappresenti il varco tra corpo e linguaggio, ma la via è tracciata, basta seguirla. Ma ricominciamo ancora una volta da capo articolando, questa volta in bell’ordine, il nostro tema di fondo di modo che almeno alla vista si faccia più luminoso ciò che al pensiero rimane per il momento opaco. C’è “una potenza generale di formulazione motoria”9 che scorre nel mio corpo, che lo spinge verso il mondo e glielo lascia abitare così come esso gli si offre. Questa potenza si polarizza nella percezione. Io vedo, tocco, odo che c’è qualcosa, perché esso si lascia vedere, toccare e udire. Percepisco ciò che vivo per adombramenti perché per adombramenti mi si manifesta. Alcuni profili mi si danno nella piena luce, altri mi si sottraggono e fanno casa nell’umbratile; alcuni dettagli vengono in primo piano quando tutto il resto s’adagia nello sfondo. Posso girarmi, spostami, abbassarmi; posso guardare, toccare, ascoltare o fare le tre cose insieme. In una parola, posso esplorare ciò che mi si manifesta e distribuire nel chiaro ciò che prima s’allungava nell’ombra o portare in primo piano lo sfondo che lo circuiva, ma senza questa dialettica di svelamento/nascondimento di vicinanza/lontananza la mia percezione non sarebbe possibile, poiché tutto si confonderebbe sul medesimo piano. C’è poi una volontà di descrivere, di interrogare, di giudicare questo qualcosa che io ho da sempre alla portata dei miei sensi, questo è ciò che compie il linguaggio. C’è un senso diffuso prima della parola, un’intesa tacita, “sacramentale”, come dirà suggestivamente Merleau-Ponty, tra me e il mondo e c’è un senso articolato, una ripresa che delimita il campo d’azione e pulsionale del mio contatto spontaneo col mondo, trasformando ogni vissuto in vissuto-parlato:Proprio questo lógos universale declinato innanzitutto come phoné, costituirà il varco che tenteremo di esplorare, descrivendo l’ambigua dialettica che dal silenzio corporeo fa emergere i giochi linguistici regolati per poi di colpo, nel prorompere del grido, del riso o del pianto inabissarli ancora nel residuo carnale che eccede ogni codificaFile | Dimensione | Formato | |
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