Negli archivi europei un cercatore di immagini può davvero diventare il pescatore del mare di cui Hannah Arendt parla a proposito di Walter Benjamin collezionista, cioè di Benjamin storico. In breve, di Benjamin filosofo della storia. In particolare, si tratta di sapersi immergere, saper andare al fondo di un patrimonio fotografico enorme che mostra fin dal primo sguardo – e di sguardo si tratterà in modo esteso – una straordinaria accumulazione di immagini di guerra. La relazione tra fotografia e guerra, infatti, è stata sottolineata da molti pensatori e filosofi – e dallo stesso Benjamin –, ma anche da artisti e sperimentatori di tecniche fotografiche del XX secolo, e in particolare, da una gran parte di teorici di quella che dagli anni '70 è stata definita Visual Culture. Questi studi hanno riconosciuto nella produzione iconografica della Prima Guerra mondiale il momento-zero, l'inizio effettivo della fascinazione della fotografia per la guerra. O viceversa. In effetti, la produzione fotografica dei Servizi preposti dagli Eserciti e la produzione privata – intima – di soldati amatori si realizzano come fenomeno del tutto nuovo dell'esperienza di guerra e si caratterizzano per due aspetti che in questa ricerca si riconoscono fondamentali proprio sul piano del metodo di lavoro e di studio con cui si procede all'analisi: una inedita volontà documentaria dell'esperienza della trincea e una straordinaria necessità di produzione e riproduzione di immagini ad uso delle masse. Definire nel mare di fonti per la Prima Guerra mondiale un oggetto preciso ed efficace di studio è stato per questi due motivi particolarmente difficile ma è su quell'oggetto che si concentra lo scavo archeologico – o la pesca miracolosa – alla ricerca dei caratteri peculiari e in qualche modo “originari” del fenomeno novecentesco di fascinazione per la guerra da parte dello sguardo e dunque del dispositivo fotografico, nodi centrali della riflessione. Dunque, la necessità di lavorare su un corpus il più coerente e riconoscibile possibile, il problema dei diritti di consultazione e riproduzione dei materiali fotografici – problema dovuto a questioni di fragilità materiale della fonte e a questioni di risorse economiche degli istituti di conservazione – e la difficoltà di poterli analizzare, tutto questo obbliga il ricercatore, e allo stesso tempo lo invita, a operare una scelta, a restringere il campo il più possibile. Qui si è trattato di fare i conti con un oggetto che fosse da un lato riconoscibile – le generalizzazioni non sono quasi mai permesse o giustificabili – ma dall'altro anche estendibile – la pratica fotografica nel corso del primo conflitto mondiale viene continuamente descritta come comune a tutti gli schieramenti, su tutti i fronti, sottoposta a dinamiche censorie e politiche propagandistiche pressoché identiche per tutti i Paesi coinvolti nel conflitto. A questi due criteri di scelta, ha risposto con maggiore aderenza un gruppo di circa sessanta album fotografici prodotti dalla Sezione Fotografica dell'Esercito italiano e conservati presso l'Archivio Centrale del Risorgimento di Roma, già a partire dalla fine del conflitto per volontà dell'allora Ministro di Unità Nazionale Paolo Boselli. L'attenzione di allora per questo tipo di pratiche e produzione in tempo di guerra, e l'attenzione di oggi per la loro conservazione e fruizione in vista del centenario della Grande Guerra, hanno aggiunto a questa ricerca almeno due nuovi aspetti da tenere in conto, sia sul piano del metodo sia su quello delle considerazioni generali. Da una parte infatti, questo corpus è al centro di un progetto di digitalizzazione degli archivi iconografici e dei documenti della Grande Guerra condiviso e portato avanti da diversi istituti e enti di conservazione in Italia – si veda il sito www.14-18.it – sul modello di una più ampia progettazione telematica di stampo europeo – si veda il sito www.europeana.eu. Dall'altra, il fatto di essere alle porte del centenario del conflitto rimette straordinariamente in funzione retoriche e contenuti di un discorso nazionale identitario che si vuole fondare proprio sull'accessibilità diffusa a mezzo internet di fonti considerate popolari e fruibili acriticamente, come le immagini dal fronte. Si tratta quindi, sul piano metodologico di un tentativo di “salvare” il patrimonio di fotografie al centro dello studio da una morte “etica”, dall'oblio dovuto a una fruizione troppo semplificata – l'interfaccia virtuale e l'infinita rete di link e connessioni possibili; emanciparlo da un uso semplicistico della fotografia come fonte per la storia – spesso decorazione della pagina o illustrazione di posizioni teoriche già stabilite; e in questo periodo, anche liberarlo dalle celebrazioni nazional-patriottiche, dalla riattivazione di ambigue e pericolose retoriche identitarie. Ma, allo stesso tempo, sul piano della Visual Culture di contribuire a rendere questi materiali un archivio aperto, un «archivio potenziale» e disponibile a una consultazione che vada al di là di una pretesa interpretazione ufficiale della Grande Guerra; indagare quindi i piani produttivi della ripetizione delle immagini, il montaggio stesso come dispositivo fotografico più o meno codificato nelle pagine dell'album, la possibilità stessa della loro riproduzione massificata per il tramite di altri strumenti di propaganda e d'informazione durante e dopo il conflitto. Nella prima parte della tesi quindi – la cui struttura generale si compone di quattro macro-sezioni di cui l'ultima è l'album-catalogo fotografico di materiali scelti – si è trattato di riflettere con attenzione sulla natura di questo archivio: una natura doppia, materiale e virtuale innanzitutto; ma anche rigida e ufficiale eppure aperta e passibile di manipolazioni, scomposizioni, connessioni virtuali. In questo senso, nel primo capitolo sono trattate anche le questioni relative alle caratteristiche proprie dell'album e delle singole immagini come oggetti-dispositivi fotografici a sé stanti; alle modalità e alle politiche coeve e recenti di accumulazione, conservazione e fruizione che li hanno prodotti e riprodotti. Tutto questo permette ci concepire il corpus degli album fotografici ufficiali come un archivio in se stesso – strutturalmente simile, come si è accennato prima, agli altri corpus dello stesso genere – nel quale cercare le caratteristiche di base di un materiale prodotto per documentare le attività dell'Esercito da una parte, e per essere diffuso attraverso la stampa di guerra e i giornali popolari, dall'altra. Questi aspetti che si iscrivono in un discorso sull'estetica della politica e della violenza di guerra – ovvero di una violenza legittimata dal monopolio del potere costituito e dalle pratiche stesse della sua circolazione propagandistica – nelle società europee coeve, sono elementi essenziali di una riflessione più ampia sulla visualità della guerra come esperienza percettiva e come espressione culturale – la Visual Culture in senso largo – dal suo debutto all'inizio del XIX secolo. Esiste infatti, una forte caratterizzazione della produzione fotografica nel milieu della guerra che sembra – ed è qui che si trova il nodo dell'analisi – influenzare la relazione tra fotografia e guerra e, di qui, tra esperienza della realtà novecentesca come di una «guerra totale» e la sua riproduzione tecnica che ne moltiplica le visioni fino a identificarla come fenomeno originario, matrice della storia contemporanea, esperienza collettiva e continuativa dell'individuo attore-spettatore del disastro. La seconda macro-sezione del lavoro si concentra quindi sul doppio binario di questo fenomeno spettatoriale nato nella trincea della Grande Guerra: doppio perché da un lato resta ancorato alla sua fonte – l'album fotografico e la fotografia come dispositivo – ma dall'altro, si eleva al livello teorico delle riflessioni e delle teorie sulla percezione, sui media nell'accezione benjaminiana di Apparatur, sull'antropologia della guerra seguendo una linea che parte proprio da Benjamin e da quanti – artisti e non – riflettono sul tema a partire già dagli anni '20 e '30. In modo particolare, il terzo capitolo della tesi cerca di fare il punto delle diverse prospettive e pratiche di manipolazione fotografica che prendono avvio proprio dall'esperienza e dal patrimonio iconografico della Grande Guerra per riflettere e riprodurre un sapere visuale sulla realtà, sul mondo e, in senso critico, sulle sue trasformazioni: naturalmente, il confronto sul dispositivo fotografico tra Benjamin e Kracauer e le opposte scuole di pensiero dell'avanguardia artistica tedesca, la più prolifica da queste punto di vista per quanto riguarda le pratiche e le tecniche di produzione, riproduzione e (foto)montaggio del materiale fotografico di guerra (Moholy-Nagy e Renger-Patzsch; Friedrich, Tucholsky e Heartfield). Questo capitolo si presenta infatti come un atlante dei maggiori fenomeni di produzione culturale in ambito visuale all'inizio del Novecento che sottolineano in modo esemplare – ed è questo ciò che s'intende di-mostrare – la stretta relazione tra cultura contemporanea e visualità e tra questa e l'esperienza della guerra moderna. Nelle trincee europee sembra prodursi infatti, una relazione ottica tra l'uomo e la realtà che dà luogo a una serie straordinaria di punti di vista sulla catastrofe, sulla rovina, sull'orizzonte (di senso), del tutto nuovi e sintomatici della condizione delle masse umane di fronte alla guerra totale di cui il primo conflitto mondiale rappresenta il vero esordio. Due elementi che si ritrovano nell'accostamento del lavoro sugli album fotografici della Grande Guerra e quello sull'atlante di immagini da Warburg a Jünger: da un lato, il profilo del ricercatore; dall'altro, la natura frammentata dell'oggetto che pure si tiene per l'intervento produttivo della disposizione delle immagini. Per quanto riguarda la figura del ricercatore, il pescatore di coralli nel mare della storia del XX secolo che all'inizio assomigliava a Benjamin, assume qui alcuni caratteri di un altro manipolatore di immagini interessato ai resti e ai fenomeni conflittuali della cultura e dell'antropologia visuale: Aby Warburg de «La guerra del 1914-1915. Rivista illustrata» e in parte, del Bilderatlas Mnemosyne; l'Ernst Jünger del «sillabario del mondo mutato» dalla «mobilitazione totale». L'esperienza della trincea rappresenta per questi due pensatori, il momento nel quale la percezione sensibile “omogenea” e pacificata – messa intanto in crisi già alla fine dell'800 – e, di conseguenza, la riproduzione tecnica dei suoi fenomeni sensibili – in particolare sul piano della visione – esplodono con lo scoppio della Grande Guerra e si dispiegano nello spazio terribile ma evidentemente prolifico di un'«urna» di terra. Nella terza sezione del lavoro, ci si impegna direttamente nello scavo metodologico dentro l'esperienza materiale della trincea, seguendo l'esempio del filosofo francese Paul Virilio di fronte ai bunker eretti sulle coste francesi nel corso della seconda guerra mondiale e i suoi studi sulla normalizzazione culturale delle pratiche e delle strategie militari della visibilità come regime che dura fino a noi, passando per alcuni aspetti centrali dell'antropologia fenomenologica di Hans Blumenberg e dell'antropologia delle immagini di Hans Belting e Georges Didi-Huberman. Questa parte del lavoro si presenta come quella più impegnativa sul piano dell'analisi dei concetti teorici di riferimento e della loro rielaborazione nel caso di studio. Un'intuizione porta direttamente dentro questo materiale prolificante di immagini – apparentemente omogenee e generalmente incapaci di sorprenderci: è possibile vedere dentro questo volume enorme di fotografie uno dei regimi scopici di cui si parla a proposito dello statuto dell'uomo come spettatore? Si può parlare dell'esperienza visuale della Prima Guerra mondiale e della sua riproduzione tecnica massmediatica come del momento-zero di una trasformazione antropologica che sposta – o meglio spiazza – l'uomo dalla sua posizione d'osservatore a distanza e pacificato del disastro – del naufragio di Blumenberg che diventa conflitto – in una posizione più complessa e problematica, allo stesso tempo di spettatore/attore, soggetto dello sguardo e della camera dentro il terreno stesso del disastro? È nel quinto capitolo di questa sezione del lavoro che si osserva appunto questo spiazzamento, questa dislocazione del soggetto insieme a quella delle immagini e dei punti di osservazione che nelle fotografie si individuano e da cui permettono di essere analizzate. Le fotografie infatti mostrano i meccanismi del montaggio originale – spesso dovuti a scelte casuali e a pratiche di mera accumulazione e catalogazione – e esse stesse si offrono alla possibilità di «emanciparsi» dal racconto stabilito sulla pagina che diventa terreno di lavoro e di ricerca ogni volta nuovo: un campo di stratificazioni archeologiche della Visual Culture del '900. Trattare album fotografici “aperti” allora, pagine nere per lo più sulle quali si dispongono centinaia di immagini di guerra disponibili ad essere manipolate, offre lo spazio e la possibilità appunto di analizzare i dettagli, di soffermarsi sugli intervalli dovuti alla sovrapposizione di riquadri e cornici – della trincea, della camera fotografica, dell'immagine, dell'ordine del montaggio –, di seguire così percorsi rizomatici e missing links – dovuti anche alla fruizione digitale in rete – che indicano le ripetizioni, le moltiplicazioni e le manipolazioni alle quali sono state sottoposte fin dall'inizio. Infine, dunque, la quarta sezione, costituita dall'album-catalogo fotografico prodotto nel corso dell'analisi dei materiali. Come momento nel quale l'album-archivio e l'archivio di album si aprono diventando materiale potenziale di ulteriori ridisposizioni, il lavoro sulle immagini trova alcuni richiami metodologici fondamentali – per quanto nella sostanza differenti e iscritti dentro pratiche e dispositivi con una propria natura e identità visuale – con l'atlante e il lavoro del montatore di immagini sulla placca nera del suo progetto. Nella visibilità frammentata, mutilata, eterogenea e ossimorica della guerra di trincea, si possono ritrovare dunque in nuce aspetti straordinariamente convincenti della natura visuale della Grande Guerra e quindi, della cesura causata da questa esperienza lunga, terrificante e collettiva, nella collocazione dello spettatore contemporaneo rispetto allo svolgersi del disastro, anche e soprattutto per il tramite del dispositivo fotografico prima, e della sua riproduzione tecnica poi. L'immagine della guerra, il paesaggio dell'assenza e del disastro, il vuoto delle rovine, le ferite delle trincee e dei corpi, lo sguardo mutilato e quasi vietato dello spettatore, la perdita di orizzonte e, allo stesso tempo, la conquista continua di nuovi spazi e punti di vista per una visione spesso caratterizzata dall'apparizione dell'invisibile, si emancipano dal limite dell'album per proporre nel sesto e ultimo capitolo una mise en abîme della geografia del taglio, della cesura, della ferita che vede la sovrapposizione dell'esperienza percettiva del disastro, della sua riproduzione e, infine, della sua accumulazione come patrimonio di una memoria visuale collettiva.

Grossi, . (2014). 1914-1918. L'Album della Guerra: regime telescopico e montaggio fotografico della Storia.

1914-1918. L'Album della Guerra: regime telescopico e montaggio fotografico della Storia

GROSSI, Erica
2014-02-02

Abstract

Negli archivi europei un cercatore di immagini può davvero diventare il pescatore del mare di cui Hannah Arendt parla a proposito di Walter Benjamin collezionista, cioè di Benjamin storico. In breve, di Benjamin filosofo della storia. In particolare, si tratta di sapersi immergere, saper andare al fondo di un patrimonio fotografico enorme che mostra fin dal primo sguardo – e di sguardo si tratterà in modo esteso – una straordinaria accumulazione di immagini di guerra. La relazione tra fotografia e guerra, infatti, è stata sottolineata da molti pensatori e filosofi – e dallo stesso Benjamin –, ma anche da artisti e sperimentatori di tecniche fotografiche del XX secolo, e in particolare, da una gran parte di teorici di quella che dagli anni '70 è stata definita Visual Culture. Questi studi hanno riconosciuto nella produzione iconografica della Prima Guerra mondiale il momento-zero, l'inizio effettivo della fascinazione della fotografia per la guerra. O viceversa. In effetti, la produzione fotografica dei Servizi preposti dagli Eserciti e la produzione privata – intima – di soldati amatori si realizzano come fenomeno del tutto nuovo dell'esperienza di guerra e si caratterizzano per due aspetti che in questa ricerca si riconoscono fondamentali proprio sul piano del metodo di lavoro e di studio con cui si procede all'analisi: una inedita volontà documentaria dell'esperienza della trincea e una straordinaria necessità di produzione e riproduzione di immagini ad uso delle masse. Definire nel mare di fonti per la Prima Guerra mondiale un oggetto preciso ed efficace di studio è stato per questi due motivi particolarmente difficile ma è su quell'oggetto che si concentra lo scavo archeologico – o la pesca miracolosa – alla ricerca dei caratteri peculiari e in qualche modo “originari” del fenomeno novecentesco di fascinazione per la guerra da parte dello sguardo e dunque del dispositivo fotografico, nodi centrali della riflessione. Dunque, la necessità di lavorare su un corpus il più coerente e riconoscibile possibile, il problema dei diritti di consultazione e riproduzione dei materiali fotografici – problema dovuto a questioni di fragilità materiale della fonte e a questioni di risorse economiche degli istituti di conservazione – e la difficoltà di poterli analizzare, tutto questo obbliga il ricercatore, e allo stesso tempo lo invita, a operare una scelta, a restringere il campo il più possibile. Qui si è trattato di fare i conti con un oggetto che fosse da un lato riconoscibile – le generalizzazioni non sono quasi mai permesse o giustificabili – ma dall'altro anche estendibile – la pratica fotografica nel corso del primo conflitto mondiale viene continuamente descritta come comune a tutti gli schieramenti, su tutti i fronti, sottoposta a dinamiche censorie e politiche propagandistiche pressoché identiche per tutti i Paesi coinvolti nel conflitto. A questi due criteri di scelta, ha risposto con maggiore aderenza un gruppo di circa sessanta album fotografici prodotti dalla Sezione Fotografica dell'Esercito italiano e conservati presso l'Archivio Centrale del Risorgimento di Roma, già a partire dalla fine del conflitto per volontà dell'allora Ministro di Unità Nazionale Paolo Boselli. L'attenzione di allora per questo tipo di pratiche e produzione in tempo di guerra, e l'attenzione di oggi per la loro conservazione e fruizione in vista del centenario della Grande Guerra, hanno aggiunto a questa ricerca almeno due nuovi aspetti da tenere in conto, sia sul piano del metodo sia su quello delle considerazioni generali. Da una parte infatti, questo corpus è al centro di un progetto di digitalizzazione degli archivi iconografici e dei documenti della Grande Guerra condiviso e portato avanti da diversi istituti e enti di conservazione in Italia – si veda il sito www.14-18.it – sul modello di una più ampia progettazione telematica di stampo europeo – si veda il sito www.europeana.eu. Dall'altra, il fatto di essere alle porte del centenario del conflitto rimette straordinariamente in funzione retoriche e contenuti di un discorso nazionale identitario che si vuole fondare proprio sull'accessibilità diffusa a mezzo internet di fonti considerate popolari e fruibili acriticamente, come le immagini dal fronte. Si tratta quindi, sul piano metodologico di un tentativo di “salvare” il patrimonio di fotografie al centro dello studio da una morte “etica”, dall'oblio dovuto a una fruizione troppo semplificata – l'interfaccia virtuale e l'infinita rete di link e connessioni possibili; emanciparlo da un uso semplicistico della fotografia come fonte per la storia – spesso decorazione della pagina o illustrazione di posizioni teoriche già stabilite; e in questo periodo, anche liberarlo dalle celebrazioni nazional-patriottiche, dalla riattivazione di ambigue e pericolose retoriche identitarie. Ma, allo stesso tempo, sul piano della Visual Culture di contribuire a rendere questi materiali un archivio aperto, un «archivio potenziale» e disponibile a una consultazione che vada al di là di una pretesa interpretazione ufficiale della Grande Guerra; indagare quindi i piani produttivi della ripetizione delle immagini, il montaggio stesso come dispositivo fotografico più o meno codificato nelle pagine dell'album, la possibilità stessa della loro riproduzione massificata per il tramite di altri strumenti di propaganda e d'informazione durante e dopo il conflitto. Nella prima parte della tesi quindi – la cui struttura generale si compone di quattro macro-sezioni di cui l'ultima è l'album-catalogo fotografico di materiali scelti – si è trattato di riflettere con attenzione sulla natura di questo archivio: una natura doppia, materiale e virtuale innanzitutto; ma anche rigida e ufficiale eppure aperta e passibile di manipolazioni, scomposizioni, connessioni virtuali. In questo senso, nel primo capitolo sono trattate anche le questioni relative alle caratteristiche proprie dell'album e delle singole immagini come oggetti-dispositivi fotografici a sé stanti; alle modalità e alle politiche coeve e recenti di accumulazione, conservazione e fruizione che li hanno prodotti e riprodotti. Tutto questo permette ci concepire il corpus degli album fotografici ufficiali come un archivio in se stesso – strutturalmente simile, come si è accennato prima, agli altri corpus dello stesso genere – nel quale cercare le caratteristiche di base di un materiale prodotto per documentare le attività dell'Esercito da una parte, e per essere diffuso attraverso la stampa di guerra e i giornali popolari, dall'altra. Questi aspetti che si iscrivono in un discorso sull'estetica della politica e della violenza di guerra – ovvero di una violenza legittimata dal monopolio del potere costituito e dalle pratiche stesse della sua circolazione propagandistica – nelle società europee coeve, sono elementi essenziali di una riflessione più ampia sulla visualità della guerra come esperienza percettiva e come espressione culturale – la Visual Culture in senso largo – dal suo debutto all'inizio del XIX secolo. Esiste infatti, una forte caratterizzazione della produzione fotografica nel milieu della guerra che sembra – ed è qui che si trova il nodo dell'analisi – influenzare la relazione tra fotografia e guerra e, di qui, tra esperienza della realtà novecentesca come di una «guerra totale» e la sua riproduzione tecnica che ne moltiplica le visioni fino a identificarla come fenomeno originario, matrice della storia contemporanea, esperienza collettiva e continuativa dell'individuo attore-spettatore del disastro. La seconda macro-sezione del lavoro si concentra quindi sul doppio binario di questo fenomeno spettatoriale nato nella trincea della Grande Guerra: doppio perché da un lato resta ancorato alla sua fonte – l'album fotografico e la fotografia come dispositivo – ma dall'altro, si eleva al livello teorico delle riflessioni e delle teorie sulla percezione, sui media nell'accezione benjaminiana di Apparatur, sull'antropologia della guerra seguendo una linea che parte proprio da Benjamin e da quanti – artisti e non – riflettono sul tema a partire già dagli anni '20 e '30. In modo particolare, il terzo capitolo della tesi cerca di fare il punto delle diverse prospettive e pratiche di manipolazione fotografica che prendono avvio proprio dall'esperienza e dal patrimonio iconografico della Grande Guerra per riflettere e riprodurre un sapere visuale sulla realtà, sul mondo e, in senso critico, sulle sue trasformazioni: naturalmente, il confronto sul dispositivo fotografico tra Benjamin e Kracauer e le opposte scuole di pensiero dell'avanguardia artistica tedesca, la più prolifica da queste punto di vista per quanto riguarda le pratiche e le tecniche di produzione, riproduzione e (foto)montaggio del materiale fotografico di guerra (Moholy-Nagy e Renger-Patzsch; Friedrich, Tucholsky e Heartfield). Questo capitolo si presenta infatti come un atlante dei maggiori fenomeni di produzione culturale in ambito visuale all'inizio del Novecento che sottolineano in modo esemplare – ed è questo ciò che s'intende di-mostrare – la stretta relazione tra cultura contemporanea e visualità e tra questa e l'esperienza della guerra moderna. Nelle trincee europee sembra prodursi infatti, una relazione ottica tra l'uomo e la realtà che dà luogo a una serie straordinaria di punti di vista sulla catastrofe, sulla rovina, sull'orizzonte (di senso), del tutto nuovi e sintomatici della condizione delle masse umane di fronte alla guerra totale di cui il primo conflitto mondiale rappresenta il vero esordio. Due elementi che si ritrovano nell'accostamento del lavoro sugli album fotografici della Grande Guerra e quello sull'atlante di immagini da Warburg a Jünger: da un lato, il profilo del ricercatore; dall'altro, la natura frammentata dell'oggetto che pure si tiene per l'intervento produttivo della disposizione delle immagini. Per quanto riguarda la figura del ricercatore, il pescatore di coralli nel mare della storia del XX secolo che all'inizio assomigliava a Benjamin, assume qui alcuni caratteri di un altro manipolatore di immagini interessato ai resti e ai fenomeni conflittuali della cultura e dell'antropologia visuale: Aby Warburg de «La guerra del 1914-1915. Rivista illustrata» e in parte, del Bilderatlas Mnemosyne; l'Ernst Jünger del «sillabario del mondo mutato» dalla «mobilitazione totale». L'esperienza della trincea rappresenta per questi due pensatori, il momento nel quale la percezione sensibile “omogenea” e pacificata – messa intanto in crisi già alla fine dell'800 – e, di conseguenza, la riproduzione tecnica dei suoi fenomeni sensibili – in particolare sul piano della visione – esplodono con lo scoppio della Grande Guerra e si dispiegano nello spazio terribile ma evidentemente prolifico di un'«urna» di terra. Nella terza sezione del lavoro, ci si impegna direttamente nello scavo metodologico dentro l'esperienza materiale della trincea, seguendo l'esempio del filosofo francese Paul Virilio di fronte ai bunker eretti sulle coste francesi nel corso della seconda guerra mondiale e i suoi studi sulla normalizzazione culturale delle pratiche e delle strategie militari della visibilità come regime che dura fino a noi, passando per alcuni aspetti centrali dell'antropologia fenomenologica di Hans Blumenberg e dell'antropologia delle immagini di Hans Belting e Georges Didi-Huberman. Questa parte del lavoro si presenta come quella più impegnativa sul piano dell'analisi dei concetti teorici di riferimento e della loro rielaborazione nel caso di studio. Un'intuizione porta direttamente dentro questo materiale prolificante di immagini – apparentemente omogenee e generalmente incapaci di sorprenderci: è possibile vedere dentro questo volume enorme di fotografie uno dei regimi scopici di cui si parla a proposito dello statuto dell'uomo come spettatore? Si può parlare dell'esperienza visuale della Prima Guerra mondiale e della sua riproduzione tecnica massmediatica come del momento-zero di una trasformazione antropologica che sposta – o meglio spiazza – l'uomo dalla sua posizione d'osservatore a distanza e pacificato del disastro – del naufragio di Blumenberg che diventa conflitto – in una posizione più complessa e problematica, allo stesso tempo di spettatore/attore, soggetto dello sguardo e della camera dentro il terreno stesso del disastro? È nel quinto capitolo di questa sezione del lavoro che si osserva appunto questo spiazzamento, questa dislocazione del soggetto insieme a quella delle immagini e dei punti di osservazione che nelle fotografie si individuano e da cui permettono di essere analizzate. Le fotografie infatti mostrano i meccanismi del montaggio originale – spesso dovuti a scelte casuali e a pratiche di mera accumulazione e catalogazione – e esse stesse si offrono alla possibilità di «emanciparsi» dal racconto stabilito sulla pagina che diventa terreno di lavoro e di ricerca ogni volta nuovo: un campo di stratificazioni archeologiche della Visual Culture del '900. Trattare album fotografici “aperti” allora, pagine nere per lo più sulle quali si dispongono centinaia di immagini di guerra disponibili ad essere manipolate, offre lo spazio e la possibilità appunto di analizzare i dettagli, di soffermarsi sugli intervalli dovuti alla sovrapposizione di riquadri e cornici – della trincea, della camera fotografica, dell'immagine, dell'ordine del montaggio –, di seguire così percorsi rizomatici e missing links – dovuti anche alla fruizione digitale in rete – che indicano le ripetizioni, le moltiplicazioni e le manipolazioni alle quali sono state sottoposte fin dall'inizio. Infine, dunque, la quarta sezione, costituita dall'album-catalogo fotografico prodotto nel corso dell'analisi dei materiali. Come momento nel quale l'album-archivio e l'archivio di album si aprono diventando materiale potenziale di ulteriori ridisposizioni, il lavoro sulle immagini trova alcuni richiami metodologici fondamentali – per quanto nella sostanza differenti e iscritti dentro pratiche e dispositivi con una propria natura e identità visuale – con l'atlante e il lavoro del montatore di immagini sulla placca nera del suo progetto. Nella visibilità frammentata, mutilata, eterogenea e ossimorica della guerra di trincea, si possono ritrovare dunque in nuce aspetti straordinariamente convincenti della natura visuale della Grande Guerra e quindi, della cesura causata da questa esperienza lunga, terrificante e collettiva, nella collocazione dello spettatore contemporaneo rispetto allo svolgersi del disastro, anche e soprattutto per il tramite del dispositivo fotografico prima, e della sua riproduzione tecnica poi. L'immagine della guerra, il paesaggio dell'assenza e del disastro, il vuoto delle rovine, le ferite delle trincee e dei corpi, lo sguardo mutilato e quasi vietato dello spettatore, la perdita di orizzonte e, allo stesso tempo, la conquista continua di nuovi spazi e punti di vista per una visione spesso caratterizzata dall'apparizione dell'invisibile, si emancipano dal limite dell'album per proporre nel sesto e ultimo capitolo una mise en abîme della geografia del taglio, della cesura, della ferita che vede la sovrapposizione dell'esperienza percettiva del disastro, della sua riproduzione e, infine, della sua accumulazione come patrimonio di una memoria visuale collettiva.
2-feb-2014
Visual Culture; Novecento; Fotografia; Grande Guerra; Montaggio; Regime Scopico; Storia; Cultural Studies
Grossi, . (2014). 1914-1918. L'Album della Guerra: regime telescopico e montaggio fotografico della Storia.
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