Luigi Bonazzi scrive nel suo avviso “ai lettori”che in generale «l’attore drammatico porta tutto se stesso nella tomba» . Quanta romantica affabulazione in tale assunto! Peccato che Bonazzi non abbia detto la verità!Gli attori della rappresentativa e del novo stile non solo non portarono via con sé il segreto della loro arte ma ci hanno lasciato una documentazione più che cospicua, tale da consentirci di riscoprirne sia le normative sia le regole d’applicazione. Sebbene in alcuni studi di qualche anno fa sulla recitazione ottocentesca si sia notato che nei copioni ci sono segni che potrebbero far parte di convenzioni codificate , non si è poi ulteriormente indagato per comprenderne il significato e la funzione. Quei segni, che sono stati anche interpretati come possibili notazioni vergate dal singolo interprete per propria personale memoria, non sono in realtà se non sigle o note appartenenti all’insieme complesso di un codice fonografico universalmente adottato per contrassegnare la declamazione sui copioni. Una laboriosa analisi delle differenti fonti e il confronto tra i trattati degli attori ed i contrassegni declamatori dei loro copioni, che ho già in parte realizzato nei miei lavori La drammatica-metodo italiano (Mimesis 2013) e La drammatica (Mimesis 2014) , mi hanno permesso di decrittare i geroglifici costituenti quel segreto dell’arte, che, per esser tale, fu un segreto palese e ben divulgato. È stato necessario però raccogliere una documentazione voluminosa per rintracciare le norme e le regole di quella che fu definita l’arte massima. Questa documentazione è in buona parte poco conosciuta o inedita, sicché, in luogo del rinvio a fonti agevolmente accessibili, qui ho dovuto ricorrere a citazioni frequenti e lunghe, affinché il lettore abbia sotto i suoi occhi, per quanto è indispensabile il documento e non la sua esposizione. L’esame comparativo e la collazione dei documenti hanno fatto emergere i caratteri dell’applicazione delle norme e delle regole della rappresentativa nel novo stile. La prima volta che vidi dei simboli declamatori della drammatica-metodo italiano fu quando, nel 2007, sfogliai il libro-copione di Eleonora Duse della Mirra di Alfieri a Cambridge.Allora non sapevo che significassero quegli “sgorbi”. Ma proprio quelli mi misero sulle tracce della drammatica.Ora so che i segni ai margini della Mirra,ancora ben visibili alle pagine 247 e 265, sono sigle declamatorie della drammatica neo-classica, che l’attrice applicava con abilità e rigore, facendo dell’artificio lo strumento della sua verità in scena.In questi ultimi dieci anni di studio, nonostante che l’Ottocento italiano sia stato ampiamente studiato, e nonostante che una parte consistente della documentazione da me analizzata fosse già conosciuta, ho dovuto con sorpresa sempre rinnovata constatare una generale disattenzione nei confronti della pratica declamatoria, che fu la base della recitazione dei grandi attori italiani, cioè quelli che in italiano recitavano Hamlet e Macbeth a Londra e a New York e La Dame aux Camélias a Parigi. Ma per quale ragione è stata ritenuta trascurabile la declamazione? L’opinione accreditatasi ha considerato proprio i grandi attori italiani responsabili della svalutazione della declamazione e del discredito che la colpì. Ma i copioni degli attori ed i loro trattati ci raccontano tutt’altra storia. Un secondo impulso a riaprire la ricerca sulla recitazione dell’Ottocento, nonostante i verdetti degli studi esistenti, mi è venuto dalla constatazione che tutti i copioni da me visti, e sono decine e decine di esemplari, contrassegnati da attori differenti,danno l’impressione di essere stati siglati da una stessa mano. Ciò mi ha portato ad una prima conclusione, da cui ha avuto inizio la decodificazione del sistema declamatorio, che i cosiddetti segni non potevano essere considerati né arbitrari né occasionali, e testimoniavano invece la presenza di convenzioni alle quali si doveva la evidente uniformità grafica. Ci sono diverse tipologie di copioni: i copioni “mutilati” per ricavare“il copione per la compagnia”, i copioni che presentano sigle che sembrano tagli ma che invece sono i contrassegni delle assimilazioni dei gradi (grappa assimilativa) edelle gabbie tonali, i copioni “per suggerire”, che contengono la partitura vocale dell’intera messinscena, e così via. I reperti sonori di Salvini e di suo figlio Gustavo, ritrovati da Antonio Attisani, dovrebbero essere ora ascoltati seguendo i contrassegni nei copioni di riferimento. Ciò facendo si potrebbero individuare la modalità dei trapassi e dell’esecuzione combinata di due azioni vocali, ed il trapasso (cambio di tono e grado di voce) con l’enfasi tonica, che Salvini usava, per fissare la battuta dominante della scena, dell’atto e dell’intera interpretazione del testo. Si potrà comprendere così che il famoso ruggito veniva eseguito dall’attore assimilando due differenti toni e gradi di voce. Nessuno me ne voglia, se il ritrovamento e la decodificazione della declamazione contrassegnata del novo stile confutano sia la tesi che Salvini sia naufragato in una «famigerata deriva emozionalista» ,sia l’antitesi, che ravviserebbe nella recitazione di Salvini «non un annullamento del sé del personaggio bensì di un processo di conoscenza (del sé) tramite l’azione». Il fatto è che il processo di conoscenza del sé rispecchia l’applicazione della quinta norma di Luigi Riccoboni, il subcontrario, che il suo maestro Modena padroneggiava con maestria. Non pare, infine, alla luce della documentazione qui da me esaminata, che sin possa parlare di «distanza tra Salvini e il suo maestro ». Modena rinnovò la rappresentativa concatenando le norme della declamazione contraffacente e quelle della declamazione per la tragedia o rappresentativa, dando così vita a quello che fu detto novo stile. È vero che esiste una distanza tra i due interpreti ma è la distanza che la storia mette tra i due, ed è la stessa distanza che c’è tra l’Amleto di Salvini recitato nella Compagnia Reale dei Fiorentini a Napoli nel 1860, e l’Otello di Salvini recitato nella Compagnia Drammatica di Alfredo De Sanctis al Reale Teatro Niccolini di Firenze il 6 febbraio 1901. Si tratta del divario provocato da uno scenario socio-politico mutato, di cui l’arte, in questo caso la recitazione di Modena e Salvini, si fa interprete, ma l’arte dell’interprete non è mutata, come si può vedere nella declamazione contrassegnata dei copioni. La difficile arte della produzione della verità in scena riaffiora dallo studio delle sigle declamatorie usate dagli attori per contrassegnare i loro copioni. Le modulazioni dei trapassi di voce e la concatenazione dei gradi e dei toni, che Tommaso Salvini ha segnato nel copione di Amleto, ci segnalano che quella fu una interpretazione sapientemente bilanciata tra arte e politica. Salvini ottiene l’autorizzazione di mettere in scena Amleto il 14 luglio 1860. Garibaldi era sbarcato a Marsala in maggio, e i suoi Mille combattevano in Sicilia per raggiungere la penisola, dove sarebbe sbarcato il primo agosto sulle coste calabre. Napoli era l’ultima ridotta del vecchio ordine politico a resistere, prima dell’agognata unificazione del Paese. E lì, in quel caldo luglio, sul palcoscenico del teatro dei Fiorentini, Salvini presenta un Amleto mutilato, privo soprattutto delle scene più introspettive e sentimentali dell’ Hamlet shakespeariano. Egli potenzia le scene che evocano convergenze con le tensioni politiche e sociali italiane, e mette in evidenza in ogni battuta di Amleto l’inevitabile ed imminente passaggio ad un ordine nuovo. Salvini coinvolge così il mitico principe di Danimarca negli afflati patriottici, che si respiravano in quei giorni nelle vie e nei vicoli della città partenopea. Nella scena finale Fortebraccio e il morente Amleto appaiono protagonisti di una profezia che si sarebbe avverata da lì a poco, la nascita della Nazione Italiana. L’Amleto, che ci restituiscono le concatenazioni dei gradi e delle voci della declamazione contrassegnata, è un eroe tragico che vince sul vecchio ordine, pur morendo. Non sono le scomposizioni e le ricomposizioni delle scene, o il depotenziamento di alcune scene o il rafforzamento di altre a indicare gli effetti del ribaltamento dell’interpretazione del personaggio, ma la complessa tessitura delle modulazioni e dei trapassi di voce che individuiamo nella declamazione contrassegnata nel copione, che la censura non avrebbe potuto decriptare.

Sica, A. (2017). L’ARTE MASSIMA, Vol. I La rappresentativa nel novo stile: norme e pratica del metodo italiano di recitazione (1728-1860). Milano : Mimesis.

L’ARTE MASSIMA, Vol. I La rappresentativa nel novo stile: norme e pratica del metodo italiano di recitazione (1728-1860)

SICA, Anna
2017-01-01

Abstract

Luigi Bonazzi scrive nel suo avviso “ai lettori”che in generale «l’attore drammatico porta tutto se stesso nella tomba» . Quanta romantica affabulazione in tale assunto! Peccato che Bonazzi non abbia detto la verità!Gli attori della rappresentativa e del novo stile non solo non portarono via con sé il segreto della loro arte ma ci hanno lasciato una documentazione più che cospicua, tale da consentirci di riscoprirne sia le normative sia le regole d’applicazione. Sebbene in alcuni studi di qualche anno fa sulla recitazione ottocentesca si sia notato che nei copioni ci sono segni che potrebbero far parte di convenzioni codificate , non si è poi ulteriormente indagato per comprenderne il significato e la funzione. Quei segni, che sono stati anche interpretati come possibili notazioni vergate dal singolo interprete per propria personale memoria, non sono in realtà se non sigle o note appartenenti all’insieme complesso di un codice fonografico universalmente adottato per contrassegnare la declamazione sui copioni. Una laboriosa analisi delle differenti fonti e il confronto tra i trattati degli attori ed i contrassegni declamatori dei loro copioni, che ho già in parte realizzato nei miei lavori La drammatica-metodo italiano (Mimesis 2013) e La drammatica (Mimesis 2014) , mi hanno permesso di decrittare i geroglifici costituenti quel segreto dell’arte, che, per esser tale, fu un segreto palese e ben divulgato. È stato necessario però raccogliere una documentazione voluminosa per rintracciare le norme e le regole di quella che fu definita l’arte massima. Questa documentazione è in buona parte poco conosciuta o inedita, sicché, in luogo del rinvio a fonti agevolmente accessibili, qui ho dovuto ricorrere a citazioni frequenti e lunghe, affinché il lettore abbia sotto i suoi occhi, per quanto è indispensabile il documento e non la sua esposizione. L’esame comparativo e la collazione dei documenti hanno fatto emergere i caratteri dell’applicazione delle norme e delle regole della rappresentativa nel novo stile. La prima volta che vidi dei simboli declamatori della drammatica-metodo italiano fu quando, nel 2007, sfogliai il libro-copione di Eleonora Duse della Mirra di Alfieri a Cambridge.Allora non sapevo che significassero quegli “sgorbi”. Ma proprio quelli mi misero sulle tracce della drammatica.Ora so che i segni ai margini della Mirra,ancora ben visibili alle pagine 247 e 265, sono sigle declamatorie della drammatica neo-classica, che l’attrice applicava con abilità e rigore, facendo dell’artificio lo strumento della sua verità in scena.In questi ultimi dieci anni di studio, nonostante che l’Ottocento italiano sia stato ampiamente studiato, e nonostante che una parte consistente della documentazione da me analizzata fosse già conosciuta, ho dovuto con sorpresa sempre rinnovata constatare una generale disattenzione nei confronti della pratica declamatoria, che fu la base della recitazione dei grandi attori italiani, cioè quelli che in italiano recitavano Hamlet e Macbeth a Londra e a New York e La Dame aux Camélias a Parigi. Ma per quale ragione è stata ritenuta trascurabile la declamazione? L’opinione accreditatasi ha considerato proprio i grandi attori italiani responsabili della svalutazione della declamazione e del discredito che la colpì. Ma i copioni degli attori ed i loro trattati ci raccontano tutt’altra storia. Un secondo impulso a riaprire la ricerca sulla recitazione dell’Ottocento, nonostante i verdetti degli studi esistenti, mi è venuto dalla constatazione che tutti i copioni da me visti, e sono decine e decine di esemplari, contrassegnati da attori differenti,danno l’impressione di essere stati siglati da una stessa mano. Ciò mi ha portato ad una prima conclusione, da cui ha avuto inizio la decodificazione del sistema declamatorio, che i cosiddetti segni non potevano essere considerati né arbitrari né occasionali, e testimoniavano invece la presenza di convenzioni alle quali si doveva la evidente uniformità grafica. Ci sono diverse tipologie di copioni: i copioni “mutilati” per ricavare“il copione per la compagnia”, i copioni che presentano sigle che sembrano tagli ma che invece sono i contrassegni delle assimilazioni dei gradi (grappa assimilativa) edelle gabbie tonali, i copioni “per suggerire”, che contengono la partitura vocale dell’intera messinscena, e così via. I reperti sonori di Salvini e di suo figlio Gustavo, ritrovati da Antonio Attisani, dovrebbero essere ora ascoltati seguendo i contrassegni nei copioni di riferimento. Ciò facendo si potrebbero individuare la modalità dei trapassi e dell’esecuzione combinata di due azioni vocali, ed il trapasso (cambio di tono e grado di voce) con l’enfasi tonica, che Salvini usava, per fissare la battuta dominante della scena, dell’atto e dell’intera interpretazione del testo. Si potrà comprendere così che il famoso ruggito veniva eseguito dall’attore assimilando due differenti toni e gradi di voce. Nessuno me ne voglia, se il ritrovamento e la decodificazione della declamazione contrassegnata del novo stile confutano sia la tesi che Salvini sia naufragato in una «famigerata deriva emozionalista» ,sia l’antitesi, che ravviserebbe nella recitazione di Salvini «non un annullamento del sé del personaggio bensì di un processo di conoscenza (del sé) tramite l’azione». Il fatto è che il processo di conoscenza del sé rispecchia l’applicazione della quinta norma di Luigi Riccoboni, il subcontrario, che il suo maestro Modena padroneggiava con maestria. Non pare, infine, alla luce della documentazione qui da me esaminata, che sin possa parlare di «distanza tra Salvini e il suo maestro ». Modena rinnovò la rappresentativa concatenando le norme della declamazione contraffacente e quelle della declamazione per la tragedia o rappresentativa, dando così vita a quello che fu detto novo stile. È vero che esiste una distanza tra i due interpreti ma è la distanza che la storia mette tra i due, ed è la stessa distanza che c’è tra l’Amleto di Salvini recitato nella Compagnia Reale dei Fiorentini a Napoli nel 1860, e l’Otello di Salvini recitato nella Compagnia Drammatica di Alfredo De Sanctis al Reale Teatro Niccolini di Firenze il 6 febbraio 1901. Si tratta del divario provocato da uno scenario socio-politico mutato, di cui l’arte, in questo caso la recitazione di Modena e Salvini, si fa interprete, ma l’arte dell’interprete non è mutata, come si può vedere nella declamazione contrassegnata dei copioni. La difficile arte della produzione della verità in scena riaffiora dallo studio delle sigle declamatorie usate dagli attori per contrassegnare i loro copioni. Le modulazioni dei trapassi di voce e la concatenazione dei gradi e dei toni, che Tommaso Salvini ha segnato nel copione di Amleto, ci segnalano che quella fu una interpretazione sapientemente bilanciata tra arte e politica. Salvini ottiene l’autorizzazione di mettere in scena Amleto il 14 luglio 1860. Garibaldi era sbarcato a Marsala in maggio, e i suoi Mille combattevano in Sicilia per raggiungere la penisola, dove sarebbe sbarcato il primo agosto sulle coste calabre. Napoli era l’ultima ridotta del vecchio ordine politico a resistere, prima dell’agognata unificazione del Paese. E lì, in quel caldo luglio, sul palcoscenico del teatro dei Fiorentini, Salvini presenta un Amleto mutilato, privo soprattutto delle scene più introspettive e sentimentali dell’ Hamlet shakespeariano. Egli potenzia le scene che evocano convergenze con le tensioni politiche e sociali italiane, e mette in evidenza in ogni battuta di Amleto l’inevitabile ed imminente passaggio ad un ordine nuovo. Salvini coinvolge così il mitico principe di Danimarca negli afflati patriottici, che si respiravano in quei giorni nelle vie e nei vicoli della città partenopea. Nella scena finale Fortebraccio e il morente Amleto appaiono protagonisti di una profezia che si sarebbe avverata da lì a poco, la nascita della Nazione Italiana. L’Amleto, che ci restituiscono le concatenazioni dei gradi e delle voci della declamazione contrassegnata, è un eroe tragico che vince sul vecchio ordine, pur morendo. Non sono le scomposizioni e le ricomposizioni delle scene, o il depotenziamento di alcune scene o il rafforzamento di altre a indicare gli effetti del ribaltamento dell’interpretazione del personaggio, ma la complessa tessitura delle modulazioni e dei trapassi di voce che individuiamo nella declamazione contrassegnata nel copione, che la censura non avrebbe potuto decriptare.
2017
Settore L-ART/05 - Discipline Dello Spettacolo
9788857540481
Sica, A. (2017). L’ARTE MASSIMA, Vol. I La rappresentativa nel novo stile: norme e pratica del metodo italiano di recitazione (1728-1860). Milano : Mimesis.
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