Fra gli aspetti poco indagati della vicenda intellettuale di André Dacier è da registrare il ruolo certamente non secondario cui assolse nella diffusione dell’opera di Aristotele e di Orazio il marito della non meno celebre traduttrice dei poemi omerici. La sua infaticabile attività porterà André a riscuotere, nello scorrere dei decenni, una notevole rinomanza nell’intera Europa. La vasta circolazione dei suoi scritti e di quelli della moglie Anne resta attestata dalle ripetute ristampe settecentesche che continuarono ad apparire ad Amsterdam e a Rotterdam o, ancora, nella stessa Germania, ove non pochi furono, infatti, gli attenti lettori (Curtius e Lessing, fra gli altri). L’immediata e duratura fortuna della quale godrà l’opera di André all’interno della cultura inglese sei-settecentesca va inquadrata all’interno della più generale ricezione della produzione critica francese attuatasi fin dal periodo della Restaurazione. La fervente attività critica d’Oltremanica prendeva le mosse, all’epoca, sulle orme di Orazio e di Boileau; e l’uscita sul mercato librario della monumentale edizione dell’opera oraziana approntata dal filologo francese assegna a quest’ultimo il ruolo di punto di riferimento privilegiato di quanti, nelle lettere inglesi, venissero ripiegandosi con attenzione sull’opera del Latino, non pochi dei quali (Dillon, Dryden, Pope, fra gli altri) finiranno per usufruire in modo copioso dei suoi scritti. La circolazione della traduzione dacieriana della Poetica aristotelica, corredata da un dotto commento, ottiene dal canto suo un successo che non è eccessivo definire come straordinario, provocando una vera e propria riscoperta di Aristotele e della sua Poetica, che risulterà non secondaria anche nell’elaborazione di una nuova estetica teatrale nell’ambito della stessa cultura inglese. E non pochi, anche in questo caso, saranno coloro che ne usufruiranno (Congreve, Dennis, Rymer, Blackmore, Gildon, Beattie, Twining, Addison). Assodato resta il fatto che le argomentazioni addotte da André nell’interpretazione del testo aristotelico abbiano finito, rafforzando quelle di Boileau e di Rapin, per permanere a lungo quali punti di riferimento costanti, quasi tradizionali, nel discorso critico d’Oltremanica. Né di non minore attenzione godettero, d’altronde, anche le successive fatiche dello studioso francese (le versioni commentate dell’Edipo e dell’Elettra di Sofocle, delle Vite di Plutarco così come dell’opera di Platone). Per ciò che attiene alla diffusa circolazione nelle cerchie letterarie italiane dei lavori dacieriani, non appare fuor di luogo parlare di una straordinaria fortuna settecentesca dell’allievo del Le Fèvre, dal momento che, tra lodi e censure riservate ai suoi scritti, non v’è, all’interno di una larga cerchia di scrittori e di critici (dal Fontanini, passando attraverso il Vico e il Gravina e poi ancora, lungo l’intero secolo, il Galiani, il Baretti e giù giù fino al Metastasio e ben oltre), chi non lo nomini, offrendo testimonianza d’essersi informato in modo puntuale sui testi critici e sulle traduzioni del filologo transalpino. In rapporti epistolari con il Salvini, il commentatore di Aristotele e di Orazio trova in Italia, è vero, alcuni non estusiasti lettori (il Conti, il Lami, il Rolli) che mostrano di non gradirne le concezioni estetiche; ma resta poi il fatto che il Dacier continuerà a godere attraverso l’intero Settecento di un credito crescente da parte di non pochi altri (il Quadrio, il Vannetti, l’Algarotti, i Verri, il Bettinelli, il Cesarotti). L’Ottocento vede affievolirsi a poco poco la fama del Dacier in Italia. Se alcuni continuano a compulsarne con attenzione gli scritti (il Soave, il Napoli Signorelli e il Monti, fra gli altri), non vengono risparmiate tuttavia critiche, anche aspre, all’opera sua. Resta indubbia, per converso, la familiarità acquisita con i lavori dacieriani da parte di un Leopardi, di un Foscolo e financo di un Carducci. Nel Novecento la reputazione del Dacier subisce l’impatto con i giudizi apertamente negativi del Croce, destinati per l’autorevolezza del critico ad investire in modo crescente l’intera cultura italiana. Marchiato dall’epiteto di ‘tiranno’ del neoclassicismo affibbiatogli dallo studioso agli albori del secolo, André finirà, a partire da quel momento, per essere quasi del tutto negletto, fatte salve soltanto alcune eccezioni (quali quella costituita dal Borgese) e, ancor di più, le significative citazioni spesso effettuate dai filologi classici e dai cultori della civiltà greco-latina, che continuano ancor oggi ad avvalersi dei suoi lavori: lavori ai quali non è possibile non riconoscere, in fin dei conti, quella acribìa critica e quel rigore metodologico che, pur se spesso inficiati da un eccesso di testardo ideologismo, egli aveva ereditato dal maestro Tanneguy Le Fèvre. Perché, in definitiva, pur essendo privo della vivacità d’ingegno e dell’acume critico posseduti dalla moglie Anne Le Fèvre, egli non rimase un incolore ‘pedante’, bensì una figura rappresentativa, e fra le maggiori, di quella critica erudita che, fin dallo scorcio finale del Seicento, era giunta ad instaurare il proprio dominio assoluto all’interno del mondo culturale ‘ufficiale’ dell’era luigiana. Di quel modo di applicare l’erudizione alla critica, basato sulla rigorosa documentazione e sull’applicazione in chiave storicistica delle regole della raison, André si segnalò, nella sua epoca, come uno dei massimi interpreti. Come resta attestato, in definitiva, dalla vasta fama europea che ne ha accompagnato, nel fluire dei secoli, il nome.

Santangelo, G.S. (2014). Aristotele, Orazio e André Dacier. Triangolazioni critiche tra Francia, Inghilterra, Germania e Italia. In E. Schulze-Busacker, V. Fortunati (a cura di), Par les siècles et par les genres. Mélanges en l’honneur de Giorgetto Giorgi (pp. 663-704). Paris : Classiques Garnier.

Aristotele, Orazio e André Dacier. Triangolazioni critiche tra Francia, Inghilterra, Germania e Italia

SANTANGELO, Giovanni Saverio
2014-01-01

Abstract

Fra gli aspetti poco indagati della vicenda intellettuale di André Dacier è da registrare il ruolo certamente non secondario cui assolse nella diffusione dell’opera di Aristotele e di Orazio il marito della non meno celebre traduttrice dei poemi omerici. La sua infaticabile attività porterà André a riscuotere, nello scorrere dei decenni, una notevole rinomanza nell’intera Europa. La vasta circolazione dei suoi scritti e di quelli della moglie Anne resta attestata dalle ripetute ristampe settecentesche che continuarono ad apparire ad Amsterdam e a Rotterdam o, ancora, nella stessa Germania, ove non pochi furono, infatti, gli attenti lettori (Curtius e Lessing, fra gli altri). L’immediata e duratura fortuna della quale godrà l’opera di André all’interno della cultura inglese sei-settecentesca va inquadrata all’interno della più generale ricezione della produzione critica francese attuatasi fin dal periodo della Restaurazione. La fervente attività critica d’Oltremanica prendeva le mosse, all’epoca, sulle orme di Orazio e di Boileau; e l’uscita sul mercato librario della monumentale edizione dell’opera oraziana approntata dal filologo francese assegna a quest’ultimo il ruolo di punto di riferimento privilegiato di quanti, nelle lettere inglesi, venissero ripiegandosi con attenzione sull’opera del Latino, non pochi dei quali (Dillon, Dryden, Pope, fra gli altri) finiranno per usufruire in modo copioso dei suoi scritti. La circolazione della traduzione dacieriana della Poetica aristotelica, corredata da un dotto commento, ottiene dal canto suo un successo che non è eccessivo definire come straordinario, provocando una vera e propria riscoperta di Aristotele e della sua Poetica, che risulterà non secondaria anche nell’elaborazione di una nuova estetica teatrale nell’ambito della stessa cultura inglese. E non pochi, anche in questo caso, saranno coloro che ne usufruiranno (Congreve, Dennis, Rymer, Blackmore, Gildon, Beattie, Twining, Addison). Assodato resta il fatto che le argomentazioni addotte da André nell’interpretazione del testo aristotelico abbiano finito, rafforzando quelle di Boileau e di Rapin, per permanere a lungo quali punti di riferimento costanti, quasi tradizionali, nel discorso critico d’Oltremanica. Né di non minore attenzione godettero, d’altronde, anche le successive fatiche dello studioso francese (le versioni commentate dell’Edipo e dell’Elettra di Sofocle, delle Vite di Plutarco così come dell’opera di Platone). Per ciò che attiene alla diffusa circolazione nelle cerchie letterarie italiane dei lavori dacieriani, non appare fuor di luogo parlare di una straordinaria fortuna settecentesca dell’allievo del Le Fèvre, dal momento che, tra lodi e censure riservate ai suoi scritti, non v’è, all’interno di una larga cerchia di scrittori e di critici (dal Fontanini, passando attraverso il Vico e il Gravina e poi ancora, lungo l’intero secolo, il Galiani, il Baretti e giù giù fino al Metastasio e ben oltre), chi non lo nomini, offrendo testimonianza d’essersi informato in modo puntuale sui testi critici e sulle traduzioni del filologo transalpino. In rapporti epistolari con il Salvini, il commentatore di Aristotele e di Orazio trova in Italia, è vero, alcuni non estusiasti lettori (il Conti, il Lami, il Rolli) che mostrano di non gradirne le concezioni estetiche; ma resta poi il fatto che il Dacier continuerà a godere attraverso l’intero Settecento di un credito crescente da parte di non pochi altri (il Quadrio, il Vannetti, l’Algarotti, i Verri, il Bettinelli, il Cesarotti). L’Ottocento vede affievolirsi a poco poco la fama del Dacier in Italia. Se alcuni continuano a compulsarne con attenzione gli scritti (il Soave, il Napoli Signorelli e il Monti, fra gli altri), non vengono risparmiate tuttavia critiche, anche aspre, all’opera sua. Resta indubbia, per converso, la familiarità acquisita con i lavori dacieriani da parte di un Leopardi, di un Foscolo e financo di un Carducci. Nel Novecento la reputazione del Dacier subisce l’impatto con i giudizi apertamente negativi del Croce, destinati per l’autorevolezza del critico ad investire in modo crescente l’intera cultura italiana. Marchiato dall’epiteto di ‘tiranno’ del neoclassicismo affibbiatogli dallo studioso agli albori del secolo, André finirà, a partire da quel momento, per essere quasi del tutto negletto, fatte salve soltanto alcune eccezioni (quali quella costituita dal Borgese) e, ancor di più, le significative citazioni spesso effettuate dai filologi classici e dai cultori della civiltà greco-latina, che continuano ancor oggi ad avvalersi dei suoi lavori: lavori ai quali non è possibile non riconoscere, in fin dei conti, quella acribìa critica e quel rigore metodologico che, pur se spesso inficiati da un eccesso di testardo ideologismo, egli aveva ereditato dal maestro Tanneguy Le Fèvre. Perché, in definitiva, pur essendo privo della vivacità d’ingegno e dell’acume critico posseduti dalla moglie Anne Le Fèvre, egli non rimase un incolore ‘pedante’, bensì una figura rappresentativa, e fra le maggiori, di quella critica erudita che, fin dallo scorcio finale del Seicento, era giunta ad instaurare il proprio dominio assoluto all’interno del mondo culturale ‘ufficiale’ dell’era luigiana. Di quel modo di applicare l’erudizione alla critica, basato sulla rigorosa documentazione e sull’applicazione in chiave storicistica delle regole della raison, André si segnalò, nella sua epoca, come uno dei massimi interpreti. Come resta attestato, in definitiva, dalla vasta fama europea che ne ha accompagnato, nel fluire dei secoli, il nome.
2014
Settore L-FIL-LET/14 - Critica Letteraria E Letterature Comparate
Santangelo, G.S. (2014). Aristotele, Orazio e André Dacier. Triangolazioni critiche tra Francia, Inghilterra, Germania e Italia. In E. Schulze-Busacker, V. Fortunati (a cura di), Par les siècles et par les genres. Mélanges en l’honneur de Giorgetto Giorgi (pp. 663-704). Paris : Classiques Garnier.
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